Sebbene sia ormai il sesto appuntamento della rubrica Spazi Inclusi, ancora non è stata spesa una riga per illustrare ai lettori la ragione di questo nome, Spazi Inclusi, che con cadenza bimensile ammorba le letture di quanti strizzano l’occhio al mondo editoriale.
Certo, gli argomenti finora trattati non lasciavano spazio a ulteriori divagazioni e i temi affrontati saturavano a sufficienza l’attenzione del pubblico curioso: di qui la scelta di posticipare la delicata spiegazione di questo titolo.
Infatti per potersi addentrare tra i risvolti della rubrica di oggi occorre in primis aver bene in mente un inequivocabile dato di fatto: la paga, il salario, il magro stipendio che attende mensilmente (davvero?) l’ingenuo correttore di bozze.
Come illustrato nelle precedenti puntate, l’attività del correttore è spesso l’ultima di una lunga sfilza di ruoli e figure che si distinguono in casa editrice, realtà essenziali e perciò economicamente retribuite. Al correttore, invece, si prospettano sempre più contratti in bilico tra il lecito e l’illecito, abilmente presentati dietro la patina di un inglesismo ruffiano qual è freelance.
Ma che significa poi freelance?
La definizione ufficiale, che alletta i neoassunti e sorride agli astuti datori di lavoro, tratteggia la figura di un lavoratore operante nel mercato come libero professionista, ossia che si relaziona con le diverse aziende senza alcun rapporto di dipendenza con esse. Nel mondo editoriale ciò si declina in un’autonomia intellettuale e un’abitualità della prestazione, dove il lavoratore ha come unici obblighi il raggiungimento di un obiettivo e il rispetto di una scadenza, ambedue definiti preventivamente da un contratto.
Niente orari, gestione del tempo in totale autonomia e maturità sufficiente per sapersi organizzare nel ventaglio degli impegni quotidiani: il freelance sembra godere di privilegi negati al lavoratore subordinato.
E la paga?
La modalità di retribuzione nella filiera del libro guarda principalmente alla pagina come unità di misura: traduttori, correttori e grafici intrecciano le loro competenze in quella griglia cartacea e digitale che racchiude il cuore dei libri.
Il correttore, infatti, viene retribuito per cartelle editoriali, ossia un rettangolo di inchiostro di 30 righe per 60 battute, pari a 1800 battute complessive (spesso anche 2000 caratteri). Tuttavia, sempre più, la sua attività di correzione viene conteggiata per pagine Word revisionate: facciate dense di caratteri, spalmate in tutta la superficie del foglio, ormai prive di margini esterni e con un’interlinea in cui lo sguardo distingue a fatica le righe del testo al limite della sovrapposizione. E voilà, quasi 4000 battute vendute al prezzo di una normale cartella editoriale di 1800.
Certo, dopotutto si tratta solo del doppio dei caratteri previsti: ma che vuoi, uno che mi faccia questo lavoro, lo trovo subito, se non ti sta bene.
Illustrata dunque la definizione ben poco uniforme di cartella editoriale, rimane infine da chiarire il concetto di battute: in quelle 1800 previste dalla cartella, è naturale che siano inclusi anche gli spazi. Una banalità, questa, talvolta soprasseduta da editori smemorini che rifiutano di riconoscere la dignità di battuta anche allo spazio, forse dimentichi che la scriptio continua di età classica è ormai poco praticata nella lettura odierna.
Ecco dunque svelato il nome di questa rubrica, Spazi Inclusi, che nel tratteggiare i retroscena dell’attività di editing, intende riconoscere il valore di quest’attività, spesso liquidata nella fretta di mandare in stampa un volume.
Del resto, la piacevolezza di una lettura risiede anche nella sua correttezza formale, nell’assenza di fastidiosi refusi che costringono il lettore a ritornare sulle parole. E soprattutto in quegli spazi bianchi, come pause di un respiro, tra un termine e l’altro che rendonoapprezzabilianchelefesseriediunarubricasullediting.