Che ne posso sapere io che non l’ho visto mai e mai ci ho parlato. Io sono venuto dopo. A me mia madre mi diceva che io avevo gli occhi uguali ai suoi. Questo solo so. E fin da quando ero nu guaglione piccolo piccolo, e poi pure da più grosso, ogni volta che passavo davanti a uno specchio o a una vetrina, sempre mi guardavo, ma solo gli occhi mi guardavo, per cercare di capire come era fatto mio padre, almeno la sguardatura, il colore almeno degli occhi suoi.

Così parla il protagonista del romanzo “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”, scritto dall’abruzzese Remo Rapino per i tipi di Minimum fax e finalista al premio Campiello 2020. La storia di un cocciamatte, di una testa matta, del “matto del villaggio”, che racconta in prima persona la sua esistenza – dal 1926 al 2010 – ripercorrendo l’ultimo secolo d’Italia vista con gli occhi di un diverso.

Dalla giovinezza trascorsa in un non meglio precisato paesino del Sud agli anni del Fascismo, dai primi lavori (in una fabbrica di funi e da un barbiere) agli anni della guerra, con dentro gli occhi l’orrore per il sangue dei caduti, che impregna le pietre della piazza e resta lì come monito, Liborio trascorre i primi anni della sua vita con pochi punti fermi: il maestro Romeo Cianfarra, l’amore non confessato per Teresa Giordani, i primi interessi per la politica.

Negli anni del boom economico è ineluttabile il trasferimento al Nord: il lavoro in fabbrica, l’iscrizione al sindacato, il sesso a pagamento, il calcio e il cinema. Liborio è trascinato dall’onda della storia, la cavalca quasi senza rendersene conto. Il suo continua a essere uno sguardo ingenuo, quello di una persona con alcuni limiti che coglie i grandi avvenimenti ma non li comprende fino in fondo.

La sua mente è popolata da concetti più semplici, dai ricordi di infanzia, dalle poche certezze che gli permettono di andare avanti. E’ un buono: conta sulla dita di una mano le cose brutte che ha fatto, mosso da un sentimento misto tra l’orgoglio, la vendetta e un personale senso di giustizia. Una di queste lo porterà ad essere rinchiuso in un manicomio per una decina d’anni. Lì troverà un altro dei personaggi fondamentali nella sue esistenza, il dottor Alvise Mattolini.

La vecchiaia è di nuovo nel paese natìo, un posto cambiato profondamente. Sono gli anni più duri, quelli della progressiva emarginazione, dello scherno da parte degli altri. L’unico conforto gli è dato dalla Sordicchia, una sua coetanea con la quale riesce a trovare qualche momento di serenità.

La particolarità del romanzo di Rapino, oltre alla bravura dell’autore nel calarsi in un personaggio così ai limiti, così fragile ma in fondo coerente, è la lingua utilizzata. È un’invenzione, un miscuglio tra italiano e dialetto, con inserzioni funamboliche, rimandi e ripetizioni. Un vero e proprio patois (non a caso alla fine c’è anche un glossario) che sembra un omaggio alla “Spartenza” di Tommaso Bordonaro e che rappresenta idealmente il groviglio di pensieri che alberga nella testa matta di Liborio. Anche la scelta di non andare mai a capo per tutte le duecentocinquanta pagine della storia contribuisce a definire il personaggio e il suo flusso di ricordi. Ciò rende sicuramente la lettura più impegnativa ma non per questo meno avvincente.

Autore: Remo Rapino
Titolo: Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio
Editore: minimum fax
Anno: 2019
Pagg. 265