Dopo “La strada” – un vero capolavoro, una dose ben tagliata di distopia, un libro di quelli che citerò per il resto della mia vita (che, per la cronaca, non termina con l’illusione speranzosa di una mosca fluttuante, come accade in “The road”, il film del 2009 tratto dallo stesso romanzo) – avere ancora tra le mani un McCarthy è stato un bisogno assoluto. E così ho scelto “Suttree”.
Le prime cento, forse duecento pagine sono state difficili. Quasi un’agonia. McCarthy non fa altro che descrivere con scrupolo maniacale la Knoxville degli anni ’50 e ogni suo dettaglio. Quello più sudicio, quello più rozzo, quello più macabro, andando finanche a raccontare gli insetti che abitano le orbite di gatti trapassati in una campagna incolta, infestata da animali selvatici e da uomini non meno selvaggi di loro. La baracca galleggiante sul fiume e lo “schifo”, la barca che dà di che vivere a Suttree dopo la fuga dal college e da una famiglia benestante colpevole di avergli taciuto verità che uno come lui avrebbe accettato senza batter ciglio.
Le lenze gettate in acqua, le carpe morte, il freddo. Il mercato, il cenciaiolo, il cielo fuligginoso, gli ubriaconi, i truffatori, le sgualdrine, gli uccelli, le bottiglie di whiskey, il sudiciume, i banconi dei bar, le risse, il sangue e i giochi a carte. Gene Harrogate, un giovane suonato, ingenuo e amorale allo stesso tempo, colto a violentare inermi angurie su un campo. Il “topo di campagna”, come lo chiama Suttree, impegnato, fin che gli riesce, a tenerlo lontano dai guai, dalle bislacche idee che mette in campo per la sopravvivenza.
È solo dopo aver raccontato lo squallore di Knoxville che McCarthy rivela il suo personaggio. È come se avesse stampato Cornelius “Buddy” Suttree al negativo. È come se avesse dipinto minuziosamente lo spazio intorno a lui, per farne emergere la sagoma solo più tardi.
A quel punto, mi è riuscito impossibile fare a meno di Suttree, abbandonare un uomo che ne ha davvero viste di tutti i colori, che ha resistito alla morte, alla disperazione e alla miseria, senza mai lottare, solo lasciandosi vivere. Un uomo che ha attraversato la prigione, la follia, l’introspezione e la deprivazione. Un uomo che senza sforzo ha accettato la realtà così com’è, senza giudicarla, senza aggredirla, senza volerla cambiare. Un personaggio a cui riesci a dare un volto, di cui immagini i capelli, le mani, i piedi, l’andatura, la parlata e anche i denti. Suttree rimane impresso nella memoria come una persona complessa ma pura d’animo che senza cinismo ma nemmeno partecipazione dice la sua senza usare mezzi termini: “A cosa credi? Credo che gli ultimi e i primi soffrono allo stesso modo. Pari passu. Allo stesso modo? Non è solo nelle tenebre della notte che tutte le anime sono un’anima sola”.
Non siamo tutti uguali solo di fronte alla morte. Lo siamo anche in vita. Suttree non sembra farsi influenzare dalle differenze culturali, sociali, economiche. Rispetta Gene Harrogate quanto il vecchio cenciaiolo (straziante è la scena in cui gli chiude gli occhi spirati e lo interroga sull’esistenza di Dio: “Gliel’hai chiesto? Della partita a dadi? Cosa ci fai nel letto con le scarpe ai piedi? Si passò una mano nei capelli e si protese in avanti a guardarlo. Non hai nessun diritto di rappresentare così la gente. Un uomo è tutti gli uomini. Non hai diritto a tanto squallore”).
Siamo tutti uguali, e soli. “Devo dirle una cosa. So che tutte le anime sono un’anima e ogni anima è sola”. È solo Suttree quando gli comunicano la morte del figlio abbandonato alle cure della madre, è solo quando perde l’animo dolce della fanciulla che lo ha amato, è solo quando fugge ai capricci della prostituta che lo ha mantenuto. E benchè McCarthy in definitiva si serva delle vicende degli emarginati, dei disperati, dei poveri, non di emarginazione parla questo libro ma di solitudine, non cercata, non imposta, quella “solitudine” che riguarda tutti, perché nella vita, che tu sia ricco o povero, sano o malato, sono solo cazzi tuoi.
Con la franchezza descrittiva che lo distingue, McCarthy racconta con grande rispetto la condizione umana. “Suttree” mette tutti di fronte allo specchio e, pur raccontando la tristezza, incredibilmente riesce a infondere una realistica speranza.
Autore: Cormac McCarthy
Titolo: Suttree
Traduzione di: Maurizia Balmelli
Editore: Einaudi
Anno: 2011
1 commento
Suttree è un libro postesistenzialista, come le sculture di Giacometti e le tele di Bacon. La sua non è solitudine. É accettazione della presenza, in sé come negli altri, di pulsioni intrise di ‘bene’ e di ‘male’ di realtà e di miti. Lo ‘schiaffo della contemporaneità’ plasma nuove convivenze.