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Smith&Wesson – Alessandro Baricco

Smith&Wesson

Sappiamo tutti che Baricco s’è preso la prima lezione americana di Calvino e se l’è imparata a memoria. L’ha assimilata, fatta propria. Poi probabilmente ha preso il libro e l’ha gettato dalla finestra. Il resto non gli interessava. Per lui l’importante è ‘La Leggerezza’. Così ha scritto i suoi primi romanzi. “Oceano mare” e “Castelli di rabbia”, ma anche “Seta” per dire. Baricco discende in linea diretta da quella stirpe di grandi narratori da esportazione che ha proprio in Calvino il suo capostipite. In questo albero genealogico lo vedrei bene sullo stesso ramo di Michele Mari e Antonio Moresco. Poi chissà.

Altri suoi libri sono più sperimentali. Penso alla ricerca linguistica di “Senza sangue”, dove il racconto si fa più crudo e se possibile più minimale, ma verso il vero e non verso il fantastico. O quella città di personaggi strampalati che è “City”, che assomiglia a un conglomerato organizzato in ogni suo particolare, come solo può esserlo uno scritto di George Perec. Romanzo in cui Baricco ha immaginato che i quartieri fossero storie e le strade personaggi.

Infine è arrivato questo “Smith & Wesson”, che fin dal titolo mi ha fatto pensare a un capolavoro di Pynchon, quel “Mason & Dixon” in cui il riservato scrittore americano narra le gesta dell’astronomo e dell’agrimensore che hanno disegnato i confini interni degli Stati Uniti d’America. Ma tra i due libri c’è un piccolo particolare che li differenzia. La leggerezza.

Quegli spazi bianchi che lascia tra le parole, tra le frasi, sono più significativi di tanti lunghi discorsi. Il valore delle pause, questa lezione che viene dalla musica. Baricco la conosce bene, essendo stato prima di tutto critico musicale. Ricordiamo infatti “Il genio in fuga” o “L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin”. Sa quindi ben calibrare la durata dei silenzi.

Prende dalla sceneggiatura e dagli spartiti musicali, per delineare con poche parole un’atmosfera, un ambiente, un’aria. Improvviso, poi Andante solenne; Andante Allegro Andante, leggiamo all’inizio dei vari movimenti. In effetti per dirla tutta questo non è proprio un romanzo, ma un testo teatrale. Fatto di dialoghi ben calibrati. Probabilmente scrivendolo Baricco aveva già in mente gli attori ai quali farlo recitare. Con un gesto più da regista teatrale che da romanziere. E in questo ricorda “Novecento”, la leggenda del pianista sull’oceano.

Inoltre ripropone fascinazioni di scienze e credenze in voga a cavallo del secolo lungo e di quello breve. A volte probabilmente queste pseudoscienze se le inventa. Rimanda a certi testi di raccolte di mattoidi e inventori pazzi. Penso al Paul Collins di “La follia di Banvard” o a certi libri di Paolo Albani, “Dizionario degli istituti anomali del mondo” o “I mattoidi italiani”. Si potrebbero prendere tutti i personaggi di Baricco, disseminati nei suoi libri, che fanno cose strane e ne fanno o una mania o una professione, e creare un “Manuale dei mestieri fantastici”.

A un certo punto di questo romanzo, in una battuta di uno dei personaggi, c’è una dichiarazione di poetica che potrebbe rivestire perfettamente anche le intenzioni di Baricco. Là dove Smith dice a Wesson: «Guardi che le parole sono piccole macchine molto esatte, mi creda, se uno non le sa usare, tanto vale che non le usi, è meglio per tutti che si rassegni a restare quello che è, cioè un rozzo animale che a fatica indica col dito le cose cercando di ricordarsi qualche fonema che le indichi, ma senza lamentarsi poi se la gente lo prenderà a calci come un cane randagio, perché è questo che si merita». L’insostenibile leggerezza della parola.

E in tutto questo Baricco ha anche l’innato istinto che diviene conoscenza dei perfetti tempi comici. E questo ovviamente grazie alle pause, alle allusioni, a ciò che non dice ma che il lettore riesce a intuire e a ricostruire. Baricco si fida molto del lettore, conosce le sue reazioni e lo porta al punto in cui sarà lui stesso, il lettore complice, a finire una frase, a completare un quadro, a ridere.

Ad esempio nel libro non si parla di pistole. Contrariamente a quanto il nome dei due attori protagonisti lascerebbe intendere. Al momento dell’incontro dei personaggi, loro stessi rimangono sorpresi da questa assonanza. Impossibile quindi chiamarsi per cognome senza pensare a pistole e fucili. Una soluzione potrebbe essere quella di chiamarsi per nome.

Smith si avvicina di nuovo al letto e tende la mano verso Wesson.
Smith: Tom. È un piacere.
Wesson: Jerry. Il piacere è mio.

Ecco l’orologiaia perfezione dei tempi comici. La qual cosa rende questo romanzo una pièce teatrale già fatta e finita. Una commedia in due atti. Pronta per essere messa in scena.

Per quanto riguarda la trama, infine, è al solito solo un espediente. È una futilità. Se dovessi raccontarla risulterebbe una cosuccia banale, insignificante. Una cosa da esclamare «Tutto qui?». Perché in Baricco non è questo che conta. Dopo aver letto il libro probabile che ce la scordiamo subito e non sappiamo più che cosa è successo.

Quello che importa è come è successo. Con quali parole e in quale ordine, con quali pause e silenzi e reticenze ce l’ha raccontata questa storiella inutile. Come osservare il meccanismo dall’interno di un grande orologio astrologico. Non ci importa che ore siano, si perde anche la cognizione del tempo, perché quelle rotelle, quegli ingranaggi, quei marchingegni, quelle ruote dentate che si muovono in un ticchettio simultaneo, ci affascinano terribilmente.

Autore: Alessandro Baricco
Titolo: Smith&Wesson
Editore: Feltrinelli
Anno: 2014

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