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Purity – Jonathan Franzen

Purity - Jonathan Franzen

Ho sempre pensato che i romanzi di Jonathan Franzen avessero mani. Con una ti afferrano per il collo, con l’altra ti trascinano sotto, dentro al vortice, quasi in apnea. Spesso è difficile, se non impossibile, staccarsi.

Lo stesso accade con Purity, con quei paragrafi in cui ogni frase sembra animata da un respiro suo proprio – un mare di tante piccole onde che increspano il filo nitido della narrazione tornando indietro e poi avanti, come se non ci fosse un prima o un dopo più importante dell’altro.

A tratti, però, è una prosa che piomba giù come un macigno, quella di Franzen. Non sguscia via, non lascia sottintesi, ti si appiccica addosso e, come una maschera di fango, si crepa leggermente adattandosi alla tua forma. Il risultato è un piano rugoso, dalle mille sottili fratture, che, pure in una sorta d’instabile equilibrio, sopporta il peso di qualcosa di essenziale.

Il nuovo romanzo arriva a cinque anni da Libertà (Freedom, 2010) ed è suddiviso in sette capitoli, ciascuno dedicato a un particolare momento nella vita di uno dei personaggi. Il filo è uno solo, ma è come se ci trovassimo a riavvolgerlo ogni volta da capi diversi.

Nel primo capitolo entriamo a piè pari e senza esitazioni nella vita di Pip Tyler. Che di speciale, in sé, non ha niente. O, forse, solo il nome. Pip sta per Purity, Purity Tyler. Occasionalmente afferriamo la sua intelligenza, sappiamo che ha circa 21 anni e un aspetto più che gradevole. Si è appena laureata dal college con 130 mila dollari di debito e non ha un soldo. Dall’esterno, insomma, la sua vita assomiglia a quella di centinaia di altri graduates che spesso finiscono risucchiati negli ingranaggi del corporativismo americano – e in particolare californiano – il cui vero volto era stato ben descritto da una serie tv prematuramente cancellata come Enlightened.

Ma non è questo il destino di Pip, né la storia che Franzen vuole raccontare. Ci sono un passato ingombrante, un presente frammentario e instabile, vecchie storie della Repubblica del Cattivo Gusto, ovvero la DDR, (The Republic of Bad Taste è il titolo del secondo splendido capitolo), a testimoniarlo. Poi la Stasi, un segreto inconfessabile, una colpa che scava un solco profondo nella vita di più di un personaggio, il mistero che aleggia sulle vere origini di Pip e sull’identità del padre che non ha mai conosciuto. E ancora qualcosa di più. Fasci emotivi, stringhe di sensazioni, ricordi, azioni e reazioni che innervano la storia, la attraversano e ne illuminano le connessioni.

Di Pip, il primo personaggio con cui impariamo a familiarizzare, Franzen non ci nasconde la ferita scoperta, la piaga purulenta che ne plasma la vita interiore, oltre a influenzarne le (spesso dubbie) scelte, il carattere, il comportamento: sua madre. Il rapporto con la propria madre è un tema a dir poco centrale per Franzen, e anche in questo libro potremmo isolarne i contorni e metterlo a fuoco come un perno a sé stante nella vita di ciascun personaggio. Sono i momenti in cui le doti di Franzen come scrittore emergono in modo quasi disarmante. C’è qualcosa di vero e autentico nel modo in cui Pip, in particolare, pensa alla madre, in ciò che la lega a lei, in quel misto di tenerezza, compassione e incazzatura che in qualche modo riassume universalmente il rapporto madre/figli nell’età adulta.

La capacità dell’autore di entrare nella testa del lettore e di stabilire una connessione diretta con i suoi sentimenti e le sue emozioni – a tratti dolorosamente sconvolgente – è pari alla sua capacità di entrare prima di tutto nella testa dei suoi personaggi. Nessuno fa eccezione. Capitolo dopo capitolo, nuove figure sembrano staccarsi da uno sfondo lasciato in penombra, per giocare il loro ruolo fondamentale nella storia.

Forse il problema più grosso di Purity è che, a prima vista, o, se vogliamo, a una facile lettura, potrebbe essere scambiato per molte cose. Si potrebbe confonderlo, ad esempio, con una poderosa invettiva contro la società tecnologica, contro il mito digitale della trasparenza. Si potrebbe addirittura arrivare a considerarlo come un (mero) gioco di punti di vista, in cui a ogni voce spetta una sua versione del racconto. Ma a sconfessare queste interpretazioni  si palesa con evidenza la solida presenza di una storia, un corso di ampia portata cui ciascun rivolo, ruscello o piccolo fiume, dà il suo contributo. In effetti, a ben vedere, nel romanzo non c’è un vero protagonista. Pip, Andreas Wolf, Leila, Tom, Anabel e altri: ognuno di questi, con il proprio bagaglio, è ugualmente importante.

Qualcosa però, fa da perno per tutti e non è difficile individuarlo. Non si tratta né di simbolo né un passepartout che apre ogni porta. La Purezza di cui parla il titolo è lì, di fronte a noi costantemente, sebbene solo nella misura in cui è raccontata attraverso la storia, ovvero, solo nella misura in cui cerchiamo di distinguerne il significato attraverso il racconto stesso, attraverso gli avvenimenti di cui il romanzo è denso. Per Pip, che odia il suo vero nome e fa di tutto per nasconderlo, la parola purity richiama in modo litotico qualcosa di niente affatto puro – qualcosa che a sua volta deve essere nascosto o, nel migliore dei casi, riscattato attraverso un nome del genere.

D’altro canto Andreas Wolf, a capo del Sunlight Project – progetto immaginario che nel solco tracciato da Wikileaks e da Julian Assange, lotta per la trasparenza nell’informazione abolendo il filtro dei media – è una sorta di Tantalo, circondato da figure che per lui incarnano una purezza ormai perduta, ma attraverso cui è incapace di redimersi.  E anche Anabel, nella sua vita e nella straziante storia con Tom cerca soprattutto un nuovo inizio, una verginità che non le verrà mai restituita, ma che, anzi, le impedirà non solo di diventare un’artista, ma di vivere l’amore della sua vita.

La purezza è inseguita o proiettata – più che incarnata – su qualcuno o qualcosa. Uno spettro inafferrabile che alberga nei ricordi, o in una speranza per il futuro che non ha radici nel presente. Ma quello che, forse, vuole davvero farci intravedere Franzen in queste pagine che non smetterei di leggere ma che, allo stesso tempo, sono stata sollevata di finire, è il convitato di pietra dal volto parzialmente oscurato che, proprio nell’era digitale, solo in apparenza ha perso di significato. Se è vero che non esiste purezza nel senso di un velo virginale a cui tornare, né liberazione, assoluzione completa per le proprie azioni, esistono, però, responsabilità ben precise da assumere su di sé. Ed è questa, infine, la speranza per le nuove generazioni, la lezione che (ci) tocca imparare dagli errori dei nostri padri e delle nostre madri. Di questo potremo sempre star certi: vivere consapevoli delle nostre responsabilità non sarà come vivere con il peso di colpe che inevitabilmente avremo, in cerca di un’impossibile redenzione.

Autore: Jonathan Franzen
Titolo: Purity
Titolo originale: Purity
Traduzione: Pareschi S.
Editore: Einaudi
Anno: 2016

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