Tommaso Pincio, com’è sua consuetudine, ci catapulta in un universo parallelo, forse inesistente, ma realistico. Uno di quegli universi di cui Fredric Brown, nel suo Assurdo universo, dice che:

«Tutti gli universi concepibili esistono. C’è, per esempio, un universo in cui in questo momento si svolge questa stessa scena, con la sola eccezione che tu, o il tuo equivalente, porti scarpe marroni invece che scarpe nere».

Uno di quegli universi di cui Borges ne Il giardino dei sentieri che si biforcano scrive:

«A differenza di Newton e di Schopenhauer, il suo antenato non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che si accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità. Nella maggior parte di questi tempi noi non esistiamo; In alcuni esiste lei e io no; in altri io, e non lei; in altri, entrambi».

Pincio imbastisce quindi questo universo utopico per introdurre alcuni temi letterari e per analizzare il mondo dell’editoria. Porta all’eccesso alcuni stilemi presenti nella società e in particolare nella società letteraria. E qui questo mondo irreale diviene più che plausibile, crudelmente realistico, fino ad essere reale.

Un sottobosco fatto di ripicche, arroganze, pettegolezzi, offese a colpi di elzeviro, battute che stroncano carriere, pronunciate con non chalance in qualche salotto letterario, recensioni negative e “venticelli” diffamatori. Per rendere ancora più realistico questo mondo e per rendere più labile il limite tra realtà e fantasia, Pincio introduce nella finzione persone reali: Andrea Cortellessa, Teresa Ciabatti, Giuliano Genna, Antonio Gnoli e quel Mario Esquilino, di cui Pincio ha curato il suo ultimo Acque Chete.

Tante persone reali che divengono personaggi e un personaggio principale che pur essendo di finzione diviene fortemente realistico. Questo personaggio è Ottavio Tondi. A cui Pincio dona inevitabilmente qualcosa di sé. Tondi è il lettore ideale. Colui che addirittura ribalta pudicamente il celebre aforisma di Borges (sempre lui) dicendo: «Non sono orgoglioso dei libri che ho letto, ma di quelli che non ho scritto».

Ottavio Tondi è un Oblomov della lettura, che si lascia agire. Uno per cui il massimo dell’attività fisica è sdraiarsi sul divano a leggere. E che della lettura fa una professione. Nel suo nome del resto c’è già insito l’ozio. La rotondità dello zero e l’8 che rimanda alla circolarità del testo stesso, che tende all’infinito.

Ottavio Tondi si lascia prendere la mano dalle abitudini. Una di queste è rappresentata dal GRA, il Grande Raccordo Anulare. Circuito e cortocircuito. Tondi lo percorre e ripercorre sempre circumnavigando un centro e una centralità che non riesce a raggiungere. Satellite della propria stessa esistenza, dalla quale è estraniato. Quasi una comparsa nella propria irresoluta vita dalla quale è agito.

Nel frattempo il mondo attorno a lui cambia repentinamente. Nessuno legge più. E anche qui c’è molto realismo, visti i dati statistici sul calo dei lettori. Tondi si trova privato del suo centro di gravità e va alla deriva. Sostituisce il libro con un social network, Panorama, tanto simile al Libro delle facce.

Ma è possibile che Panorama sia una nuova forma di letteratura? Si chiedono l’autore e il personaggio. Non più cartacea, ma immateriale, che scaturisca dalle inezie, dai particolari, per giungere a catalogare tutto il mondo, come un duplicato dello stesso, con tutti gli individui e le loro idiosincrasie e i loro “mi piace”. Che divenga un grande testo fatto di commenti al testo inesistente, una raccolta di scolii.

«Era troppo attratto dall’universo di minuzie e di sciocchezze degli altri utenti. Riflessioni banali, a volte anche idiote, foto di animali domestici o di pietanze appena cucinate. Parole e immagini tanto intime quanto risibili. L’insignificanza suprema, eppure quell’universo inutile lo stregava. Avevano ragione a chiamarlo Panorama. Proprio di questo si trattava: dell’umanità fatta paesaggio. Era come accendersi una sigaretta e affacciarsi alla finestra. E quando mai importa su quale paesaggio si affacci la tua finestra? Quale vista ti si offra? Potresti passarci comunque le ore. Anzi più la vista è scialba e vuota, più ti incanti, perché in realtà non hai bisogno di guardare qualcosa, hai bisogno di perderti nel tuo sguardo. Una forma di meditazione».

Alla fine tutto torna. Il romanzo iniziato con la storia d’amore ai tempi dei social network, si chiude con la conclusione della storia platonica tra Ottavio Tondi e Ligeia Tissot. Due personaggi talmente irreali che potete trovarli anche su… Facebook.

Perché come avverte l’autore, per cui Ligeia diviene un simbolo:

«Non passa giorno che pensi alla sua Ligeia da tempo scomparsa, l’autore seguiterà a scrivere il presente libro fin quando non l’avrà ritrovata. Il presente libro va dunque considerato un prologo di un testo più vasto e in divenire».

Questo Testo infinito che è l’esistenza, di cui noi siamo sia i lettori che i personaggi. Principali della nostra vita. Personaggi secondari nelle vite altrui e semplici comparse per il resto dell’umanità.

Insomma. In conclusione. Tommaso Pincio ci offre un libro compatto, complesso, sovrastrutturato su vari livelli interpretativi. Un libro avvincente, ma che fa riflettere, per certi versi crudo in alcune sue pagine, acuto e crudele. Un testo senza limiti, che mischia vertiginosamente finzione e realtà. Un testo che continua, infine, al di fuori delle pagine scritte e diviene mondo. Un mondo parallelo che prima o poi si teme che convergerà.

Tommaso Pincio
Panorama
NN Editore
Anno 2015