Libreria Mondadori di Padova – Interno giorno
Prendo in mano “Mi chiamavano piccolo fallimento” da una pila di copie del libro. Attirato dal blu della copertina e dalla foto. Ma non solo. Sto per leggere il risvolto di copertina quando sento un urlo. «Noooo! Noooo!». Mi giro agghiacciato. Ma è semplicemente Davide, giovane hipster barbuto e allampanato. Il mio spacciatore di libri. Fu lui ad esempio che semplicemente sussurrando «Tolle lege», come un Agostino dei nostri tempi, mi mise in mano “Stoner”.
«No, cosa?»
«No! Quello no!»
«Perché no?»
«Aprilo»
«Vediamo… c’è una foto di Shteyngart con in braccio una riproduzione della Statua della Libertà e la didascalia dice: “Durante un periodo di solitudine, 1995-2001, l’autore cerca di stringere una donna tra le braccia”. Beh, allora?»
«Non ti ricorda niente? Woody Allen: “L’ultima volta che sono entrato in una donna è stato quando ho visitato la Statua della Libertà”. Shteyngart è un plagiario. Bisogna boicottarlo».
Forse. Comunque avevo un conto aperto con Gary Shteyngart. Dopo aver letto “Il manuale del debuttante russo”, suo clamoroso libro d’esordio. Per il quale il New York Times scrisse che si continuava la grande tradizione fantastico-satirica russa, da Gogol a Bulgakov. Più o meno. Per me non era che un grande romanzo americano, scritto da un ebreo russo. Come i grandi romanzi americani sono scritti da ebrei. Saul Bellow, Philip Roth, Henry Roth, Mordecai Richler, Norman Mailer, Bernard Malamud, E.L. Doctorow, I.B. Singer, Abraham Cahan, Jonathan Safran Foer, ecc. ecc.
Certo che per dirla tutta Shteyngart si colloca più dalla parte di un Thomas Pynchon, che non du coté de chez Don DeLillo. E certamente non c’entra niente né con Gogol, né con Bulgakov. I suoi personaggi sono sempre eccessivi. Fidanzate che per mantenersi esercitano il sadomaso a domicilio. Emigrati russi senza passaporto che hanno un ventilatore come migliore amico. E avanti di questo passo.
Poi ho letto “Absurdistan”. Suo secondo romanzo. Lo aspettavo al varco. Come al solito. Perché è facile (non troppo veramente) scrivere un grande primo romanzo. Più difficile è confermare le buone cose espresse nel debutto. E “Absurdistan” è l’esatto contrario del “Manuale del debuttante russo”. Nel senso che se nel primo romanzo il protagonista (sempre fortemente autobiografico) torna da New York all’est Europa, nel secondo romanzo è invece in una repubblica dell’ex impero sovietico, quell’Absurdsvanï dalla quale, tra guerre civili e pericolosi intrighi internazionali, tenta di ritornare negli Usa, dove ha vissuto per dodici anni e dove ha lasciato la sua ragazza.
Il romanzo è per il resto molto simile al precedente. Stesso ritmo incalzante, solite battute al vetriolo contro ogni stereotipo, descrizioni surreali e ovviamente la narrazione in prima persona. Ps: la fascetta del romanzo recita: «Il romanzo più divertente del Ventunesimo secolo, almeno fino a oggi». Vorrei davvero conoscere chi scrive le fascette editoriali. C’è un copywriter specifico o è il risultato di un allegro brainstorming della redazione editoriale?
Il suo “Storia d’amore vera e superstite” del 2011 l’ho saltato a piè pari. Non troppo attirato dalla sinossi. Ambientato in un futuro prossimo. In cui gli Stati (non più) Uniti, sono cinesizzati, militarizzati e sull’orlo del collasso economico e culturale. Il trentanovenne Lenny Abramov, ovviamente figlio di immigrati ebrei russi, conosce la giovanissima ed enigmatica Eunice Park, figlia di un podologo coreano, che dopo una notte di bagordi e passione gli insegna a lavarsi i denti correttamente e lo chiama con affetto “faccia da sfigato”. Mah! L’ambientazione futuristica non mi ha convinto. Era necessaria? Trattandosi di Shteyngart sarà quanto meno la parodia di una distopia.
Quindi dovevo chiudere il cerchio. Ho infilato il libro sotto un altro e circospetto mi sono avvicinato alla cassa. Sperando che Davide non mi vedesse e non si accorgesse del mio tradimento intellettuale. Anche se adesso lo saprà. Fattene una ragione, vecchio mio.
Casa del recensore – Effetto notte
Se per il debutto di Shteyngart la Mondadori scomodava Gogol e Bulgakov, per quest’ultimo romanzo Guanda cita un certo Adam Gopnik (sono andato a cercarlo questo Gopnik e pare che sia un pezzo grosso del New Yorker). Insomma la citazione recita: «Portnoy incontra Čechov. Che cosa ci può essere di meglio?». Beh, di questo passo perché non Oblomov che incontra Fabio Volo o Madame Bovary che incontra Bradbury, chenneso, chimere di questo tipo. Cominciavo ad avere la sensazione che Davide avesse ragione. Questo libro nasceva sotto cattivi auspici.
Comunque. Non rimaneva che leggerlo.
Fin dall’inizio il romanzo si presenta come un’autobiografia, ripercorrendo anche le avventure del primo romanzo, ma con una voce più reale, fuori da ogni finzione, sembra che Shteyngart, stanco dei travestimenti nei quali è apparso sempre sé stesso nei panni dei vari personaggi, ci voglia finalmente dire tutta la verità. Nient’altro che la verità. Per quanto possa essere reale e onesta, la propria versione della propria persona. Questo è l’eterno dilemma di colui il quale dice «Io». Io è un altro, alla fine, una nostra versione di noi stessi.
Inoltre c’è dell’altro da dire. Stheyngart comincia scrivendo della propria infanzia. Una mossa furba forse, per chi è a corto di idee. Del resto l’hanno fatto più o meno tutti. Bukowski, “Panino al prosciutto”. Hemingway, nei racconti con protagonista Nick Adams. Bruno Schulz sia nelle “Botteghe color cannella”, che in “Sanatorio all’insegna della clessidra”. Ovviamente Proust, Nabokov, Canetti, Kiš. E via di questo passo.
Del resto è la grande età dell’oro perduta di tutti noi. In cui tutto era possibile. In cui ogni possibilità si apriva a ventaglio nel nostro immaginario. Prima delle scelte irrevocabili. Prima dei rimorsi e delle malinconie. Là dove tutto era più bello e più saporito. Quanto spesso anche noi ci ritroviamo a osservare dalla finestra del tempo, con una fumante tazza di tè tra le mani, quel bambino che gioca nella neve? Quello che ci sorride dalle fotografie del mare? Quello che spegne le candeline con buffe smorfie…
Il romanzo autobiografico è intriso della solita auto-ironia ebraica, quei jüdischer witz che ci riportano a Graucho Marx e, forse non dovrei dirlo, a Woody Allen. Ma al tempo stesso, a redimere il romanzo e a renderlo superiore ai precedenti, c’è quella dozzinale nostalgia, «quella pošlost’ tanto disprezzata da Nabokov», quella patina di rimpianto che diventa nostomania, per la patria, per l’infanzia, che rende tutto più gradevole. Più vero.
Perché forse è vero che i lettori hanno bisogno se non della verità, almeno di una qual forma di sincerità. Se la voce narrante è sincera, può raccontarci qualsiasi cosa e noi ci sintonizzeremo sulla stessa lunghezza d’onda dell’autore, rivivendo con lui le sue personali avventure. Empatia. Questo è quello che accade, a volte, nella magia della lettura.
Quindi Davide, devo dirtelo. Questa volta Shteyngart ha fatto centro. È sempre quell’ebreo russo americanizzato che ironizza su tutto, eccessivo, monomaniaco e autocelebrativo, spesso divertente. Però ha gettato la maschera. La maschera che ha le proprie fattezze, quella con gli occhiali, il nasone e i baffi o il pizzetto. E sotto finalmente c’è lui. O almeno qualcuno, un nuovo personaggio, che gli assomiglia terribilmente.
Central Park New York – Primo mattino
Gary Shteyngart seduto su una panchina ha appena finito di leggere questa recensione. Piano americano e poi primo piano. Esclama: «Woody Allen? Chi è costui?».
Autore: Gary Shteyngart
Titolo: Mi chiamavano piccolo fallimento
Titolo originale: Little Failure: A Memoir
Traduzione:
Katia Bagnoli
Editore: Guanda
Anno: 2014