In attesa di un Nobel per la letteratura che forse non arriverà mai (troppo di successo per i giurati?), Murakami Haruki continua a sfornare romanzi eccelsi. Non fa eccezione L’assassinio del commendatore, edito in due libri da Einaudi (il primo, con sottotitolo Idee che affiorano, è uscito in Italia a metà del 2018; il secondo, con sottotitolo Metafore che si trasformano, è dell’inizio del 2019). Un’opera poderosa, forse la più politica dello scrittore giapponese, sicuramente quella più aperta a varie interpretazioni.
Sono infatti così tanti i livelli di lettura del romanzo, che diventa impossibile sceglierne uno per riassumere le quasi 850 pagine che compongono i due libri.
La vaghezza comincia già a partire dall’identità del protagonista: un pittore/ritrattista, abbandonato dalla moglie, che a 36 anni, dopo un lungo viaggio in macchina, trova ospitalità, grazie ad un amico, nella casa che fu di Amada Tomohiko, celebre pittore giapponese ora ricoverato in un ospizio. Il protagonista non viene mai chiamato con nome e cognome: spogliato dei più elementari tratti distintivi, ha però una sua storia ben definita, ricostruita dai ricordi che l’io narrante dissemina lungo tutto il racconto.
E poi possiede un dono: con pochi tratti di pennello riesce a svelare la vera natura di chi gli sta di fronte. E non sempre questa natura è pacifica, benevola: spesso emergono violenza, cattiveria, tenebre. Ecco perché in questi casi il pittore decide di non completare del tutto le sue opere: ha paura che – dando forma compiuta ai suoi quadri – si possano aprire porte verso l’abisso. E in fondo è quello che lui stesso ritrova nel quadro che dà il titolo al libro, nascosto nella soffitta di casa Amada. Un’opera misteriosa, compiuta e violenta. Forse per questo Amada aveva deciso di celarla alla vista degli altri. Lo svelamento del quadro apre le porte di un universo parallelo, metaforicamente raggiungibile da una buca nei pressi della casa, e dall’interno del quale proviene il suono di una campanella…
Il romanzo si infittisce. Emergono due forti figure: quella di Menshiki, il ricco e misterioso vicino, che abita in una casa dall’altra parte della vallata e che chiede al pittore un ritratto. Ritratto che non verrà completato ma nel quale il soggetto riconosce i propri fantasmi. E poi Akikawa Marie, studentessa del corso di disegno del pittore, protagonista di un quadro commissionato dallo stesso Menshiki, forse l’unica che riesca a comprendere – come il pittore – il potere delle opere.
Per non parlare del commendatore protagonista del dipinto, che si anima – grazie all’arte di Murakami – e diventa un novello Virgilio per lo spaesato pittore trascinato nel mondo delle idee e delle metafore, la selva oscura dantesca rielaborata dallo scrittore giapponese. Sullo sfondo c’è qualcosa di misterioso e violento accaduto durante il Nazismo, metaforicamente riproposto da Amada nel suo dipinto.
«L’ha dipinta per se stesso, per alcune persone che non sono più di questo mondo, e per il riposo delle loro anime, potrei dire. Un’opera che deve espiare tutto il sangue che è stato versato».
Così il giovane pittore descrive a Marie L’assassinio del commendatore, prima di nasconderlo di nuovo. E’ forse questo il tratto che emerge con più forza rispetto agli altri: una riflessione sulle ferite della storia, sulla colpa e la responsabilità, sulla violenza. L’arte diventa un antidoto (quasi una espiazione) per tutto questo male: antidoto che va preso però senza esagerare, pena restarne di nuovo avvelenati.
Se proprio si volesse trovare un difetto, è nella conclusione melensa. Alla fine del percorso compiuto dal pittore ci si aspetterebbe una trasformazione, una crescita, una “uscita a riveder le stelle“, sempre per restare a Dante. Ma forse la vera straordinarietà è proprio in questa circolarità: il ritorno al punto di partenza offre probabilmente al protagonista la possibilità di non cadere nelle trappole del mondo delle metafore.