Questo romanzo, pubblicato dall’editore Clichy, ha riscontrato fin da subito un grande successo. Infatti la prima edizione è andata esaurita in pochissimo tempo. In parte grazie al passaparola e un po’ per gli elogi che gli ha tributato DFW che in un celebre articolo lo ha inserito tra «i cinque romanzi degli Stati Uniti terribilmente sottovalutati, pubblicati dopo il 1960».
(Gli altri quattro sono: Omensettes Luck di William H. Gass (1966); Steps di Jerzy Kosinski (1968); Angels di Denis Johnson (1983) Blood Meridian: Or the Evening Redness in the West di Cormac McCarthy (1985) e infine questo Wittgenstein’s Mistress di David Markson (1988) definito «il culmine della fiction sperimentale in questo paese»; come potete leggere su Salon, del 12 aprile 1999)
Eppure, nonostante l’endorsment di DFW, il libro risulta alquanto tedioso ed è veramente un’impresa titanica portarlo a termine. Sarebbe bastato un racconto, perché farne un romanzo ha necessitato l’allungamento del brodo a dismisura e non mi sorprendo che la bozza sia stata rifiutata dagli editori ben 54 volte prima della sua pubblicazione.
Succede che Kate è sola al mondo, è l’ultimo essere vivente rimasto sulla terra. Ha vissuto nel Louvre, dove per scaldarsi ha dato fuoco a numerose opere d’arte. Per le strade di Parigi scriveva messaggi sui muri: «C’è una donna che vive al Louvre», sperando che ci fosse in giro ancora qualcuno. Per spostarsi passa di macchina in macchina, finché non finisce la benzina. Ha preso anche una barca, per raggiungere il punto dove sorgeva la città di Troia.
Il suo è un lungo monologo beckettiano. Alla fine si è rifugiata in una casa sulla spiaggia. Lì ha trovato una vecchia macchina da scrivere e ha cominciato a comporre il romanzo che leggiamo e che risulta essere il pensiero simultaneo di una mente ondivaga che segue se stessa mentre insegue pensieri e sensazioni, analizzando le parti del pensiero, del linguaggio, della scrittura e dei segni in generale, che non può interpretare pienamente.
«Ho dimenticato cosa stavo scrivendo quando ho iniziato a sentirmi così.
Potrei tornare indietro, ovviamente. Quella parte non potrà essere molte righe più indietro rispetto alla riga che sto scrivendo in questo momento.
A ripensarci, però, non guarderò. Se qualcosa in ciò che stavo scrivendo ha contribuito a farmi sentire così, senza dubbio lo farebbe di nuovo.
Non mi sento spesso così, a dire il vero.
In genere mi sento abbastanza bene, tutto considerato.
Eppure può sempre capitare.
Passerà. Nel frattempo, c’è ben poco da fare.
Essendo l’angoscia uno stato emotivo fondamentale dell’esistenza, come ha detto una volta qualcuno, o come avrebbe dovuto dire.
Anche se, per la verità, credevo di essermi disfatta di gran parte di tali sentimenti, ai tempi in cui mi sono disfatta di quell’altro tipo di bagaglio.
L’inverno quando arriva, arriva.
Sebbene a quanto pare non ci si possa sbarazzare del bagaglio che si ha in testa, d’altra parte»
Come suggerito dal titolo questo è un romanzo filosofico.
L’intento dell’autore è quello di mettere in pratica le asserzioni di Wittgenstein e di creare un mondo in cui queste raggiungano il massimo della coerenza. Le idee del filosofo austriaco prendono vita e vengono romanzate. La metafisica logico-matematica astratta di Wittgenstein, pensata come un semplice meccanismo teorico, trova nella finzione di Markson la sua applicazione pratica. Prima di tutto l’asserzione per cui il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose, o come sintetizza Kate:
«Il mondo è ciò che accade».
Ecco quindi quello che accadrebbe se una persona fosse sola al mondo e non potesse avere riscontro delle proprie sensazioni. Non sarebbe più sicura di niente, ma solo di quell’iniziale cogito ergo sum, per cui sarebbe sicura di pensare, ma insicura di tutto il resto, non potendo chiedere ad altri per avere riscontro: «Hai sentito quel rumore?» o «Hai visto anche tu quel gatto rosso dentro al Colosseo?».
La chiave del romanzo è definita anche da una citazione di Kierkegaard, posta in epigrafe al libro:
«Che mutamento straordinario avviene… quando per la prima volta penetra nella nostra coscienza il fatto che tutto dipende da come una cosa viene pensata, quando, dunque, il pensiero nella sua assolutezza sostituisce una realtà apparente»
Se filosoficamente raggiunge il suo intento, come romanzo è un vero fallimento.
Il romanzo di Markson sembra scritto apposta per confermare una celebre affermazione di Borges, secondo la quale «metafisica e letteratura fantastica convivono sotto la stessa categoria letteraria», fanno parte dello stesso ramo letterario, così l’autore ha creato un’ibrida chimera che congiungesse le due categorie, restando però impantanato nella teoria filosofica.
Conosciamo molti altri romanzi filosofici che sono di per sé piacevoli e leggibili, anche se non si conosce o carpisce a fondo la filosofia sottesa che crea lo scheletro della fiction. La nausea di Sartre o Lo straniero di Camus sono romanzi straordinari, che creano dei meccanismi narrativi perfetti per dimostrare cos’è l’esistenzialismo e ci riescono!
Candide, ou l’Optimisme, il romanzo filosofico di Voltaire, nel quale lo scrittore francese prende di mira Leibniz e tende a confutare le dottrine ottimistiche, è un chiaro esempio di come si possa “filosofare” mantenendo viva la narrazione, senza scadere nella monotonia di una dissertazione filosofica e quando Candido si trova coinvolto nel terremoto di Lisbona del 1755, appare alquanto assurdo il suo ottimismo e la pretesa di trovarsi nel “migliore dei mondi possibili”…
Quello di Markson non è nemmeno un orgasmo interrotto, ma con l’incedere onanistico e ossessivo-compulsivo della sua prosa risulta una seduta di preliminari senza fine; un piacere iniziale che s’attenua e diventa noia perché senza sbocco e, per chi non conosce i precetti del filosofo, senza senso, così che L’amante di Wittgenstein risulti una lettura frigida fine a se stessa.
Markson ha voluto mantenere il massimo della coerenza filosofica e concettuale, senza concedere niente al lettore di romanzi, spingendo al massimo lo sperimentalismo a discapito della leggibilità. Così facendo ha creato un testo balbuziente che si morde la coda, una sorta di film che s’inceppa, procede a scatti e ripete le stesse scene, una sorta di errore di montaggio, fatto di ripetizioni maniacali che diventano noiose e non consentono al lettore di godere a pieno della narrazione.
Concludo rubando una similitudine a Mario Praz il quale in Bellezza e Bizzarria (1960) ha usato questo paragone per comparare lo scempio che Bernardo Bellini fece delle rime dantesche nel suo L’inferno della tirannide (1865), allo stesso modo possiamo dire che Markson ha preso il gioiello filosofico di Wittgenstein e al posto della perfezione del diamante ci ha incastonato un culo di bottiglia.
David Markson
L’amante di Wittgenstein
Wittgenstein’s Mistress
Traduzione di Sara Reggiani
Edizioni Clichy, 2016