Antonio Moresco inserisce all’inizio di questo libro una lettera d’addio. Doveva essere il suo congedo dal mondo della scrittura. Un addio definitivo, senonché la storia che racconta nel romanzo gli è venuta incontro per essere narrata ed è questo romanzo stesso che diviene allora il suo testamento letterario.
Una storia che è anche il culmine dell’esperienza letteraria di Moresco. Un romanzo che fuoriesce da Gli increati, ne è l’ideale continuazione e conclusione. Così come nell’introduzione a La lucina, romanzo del 2013, diceva che quella storia anticipava Gli increati, a testimonianza di come le opere di Moresco siano strettamente legate da una comune ricerca (oltre che costellate dagli stessi personaggi, che fanno capolino qua e là):
«La lucina è nata da uno spunto di poche righe, solo una piccola scena annotata negli appunti che ho buttato giù per anni in vista degli Increati. Credevo che questa scena avrebbe trovato posto là dentro, che vi avrebbe occupato al massimo mezza paginetta. Invece ha evidentemente lavorato in segreto dentro di me. Così, a un certo punto, ha preteso una sua vita autonoma».
Ma veniamo a questo romanzo.
Moresco in questi anni ha fatto un grande lavoro d’introspezione che è sfociato in una vera e propria missione letteraria. In questo caso lo scavo continua, fino all’essenza delle cose e a forza di scavare si è ritrovato suo malgrado nel mondo dei morti. È da lì che parte la narrazione e l’avventura dello sbirro morto Argo, che si comporta in quel mondo come se fosse vivo, come se fosse Philip Marlowe, il detective di Raymond Chandler.
In effetti, se non fosse per quella strana anomalia di essere nel mondo dei morti, sembrerebbe di essere in un hard-boiled alla James Ellroy, catapultati all’istante in un commissariato dove sulle scrivanie dei detective si trovano:
«Cavetti sparpagliati, sandwich addentati e piantati lì, tovagliolini unti, lattine di birra schiacciate, bicchierini di plastica con il fondo annerito dal caffé, tastiere buttate di traverso su pile di scartoffie inutili e caricatori di armi, con una sbarra al soffitto a cui mi appendo come una scimmia quando mi prende la disperazione per tutto il male che c’è nel mondo»
Sembra proprio di stare in Los Angels Confidential, ma è solo un’illusione iniziale …
Sembra proprio di stare nel mondo dei vivi, se non fosse per il fatto che nella città dei morti non c’è anima viva, ma solo trapassati. Un mondo rovesciato, ma con le stesse dinamiche.
Non c’è confine infatti tra il mondo dei morti e quello dei vivi e non si sa quale venga prima e quale venga dopo. Moresco sovverte un genere letterario, crea un thriller metafisico, mescolando le carte con gli strumenti di un grande narratore, che narra l’impossibile, con la parola piana del plausibile.
«Non ci sono bagliori improvvisi, non ci sono finestre, non ci sono tunnel nell’iperspazio. Non c’è molto da dire. Non c’è molta differenza tra le due città. Nella città dei vivi credono di essere vivi, nella città dei morti credono di essere morti. La città dei vivi è piena di morti, la città dei morti è piena di vivi».
A pagina 70 però si apre una parentesi e si mettono le cose in chiaro. Questo sarà un noir sui generis. È una storia diversa e verrà raccontata diversamente. Non ci sono le beghe tra i vari corpi di polizia, né le marche delle sigarette o di whisky, non c’è il gergo degli sbirri, né lo slang della mala e neppure un dettaglio sulle armi usate. Quello che importa qua è arrivare all’essenziale, alla radice del male.
Le coordinate del poliziesco convenzionale vengono terremotate. La classica freccia del tempo con passato presente e futuro, che si anima di un’inchiesta per scoprire la verità, fino a determinare il colpevole, collassa in questo romanzo insieme al suo ordine mentale. Moresco si avvicina in maniera più radicale all’interrogazione esistenziale e si chiede: “Da dove viene il male? Da dove viene il dolore? Perché la presenza del male è così soverchiante nel mondo?”.
Il caso che deve risolvere il poliziotto Argo riguarda i bambini, il loro canto che improvviso riempie il cielo della città dei morti, un canto che non tutti sentono, come fosse un segreto. Perché i bambini si sono messi a cantare?
Si è rotta una diga e il male dilaga per il mondo, Argo si erge allora a giustiziere della notte.
L’inchiesta di Argo lo porta per tre notti a combattere contro il male assoluto. Si getta a capofitto nonostante non abbia più speranza. Si butta ciecamente nell’avventura per permettere al lettore di porsi delle domande radicali, profonde, che riguardano l’esistenza e l’essenza del male, quelle stesse domande che si è posto l’autore, per cui questo romanzo non consiste in una risposta, ma in una continua interrogazione.
Che dire ancora. Moresco confessa di essere stanco. Che questo sarà il suo testamento letterario. Nel frattempo ha cambiato casa editrice passando dalla Mondadori, alla Giunti. È candidato al Premio Strega per la prima volta e questo sarebbe sicuramente il degno e naturale coronamento della sua carriera.
Anche perché Moresco ha passato anni a scrivere senza aver nessun riscontro editoriale. Come Van Gogh che dipingeva praticamente per se stesso, mosso dall’impulso del genio e della pazzia. Come Emily Dickinson che, chiusa nella sua cameretta, scriveva poesie che nessuno leggeva. Artisti in contatto con qualcosa d’Altro, di più profondo. Che a un certo punto lanciano il loro grido nel mondo. Ecco, L’addio di Moresco è questo grido nel mondo, che attraversa lo spazio e il tempo, come solo l’arte sa fare.
In breve speriamo che ci ripensi, o meglio, come è già successo, che incontri sul far della sera, sulla via del tramonto, una storia bellissima (come una Donzelletta che vien dalla campagna o una Dulcinea intenta a zappare un campo), ammiccante nella sua direzione, che lo tiri di nuovo per la giacchetta, pregandolo di essere raccontata e che quel racconto finisca in un libro e infine nuovamente tra le mani di lettori insaziabili e impazienti.
Antonio Moresco
L’addio
Giunti
2016