Ho una segreta e perversa adorazione per i libri di piccolo formato. I superpocket. Quelle collane che contengono tra le loro fila libriccini minuscoli, spesso dal contenuto intenso, concentrato, distillato come un liquore pregiato o un aceto centenario, del quale non bisogna perdere nemmeno una stilla, nemmeno una parola, ma assaporarlo trattenendolo in bocca e farne seguire la degustazione da un sonoro schiocco della lingua.
È il caso di alcune celeberrime collane, anche recenti. Ad esempio l’Adelphi dal 2006 ha iniziato la Biblioteca minima, che contiene testi immortali, come il famoso The Crack-Up di Fitzgerald o i Romanzi di tre righe di Fénéon. Oppure c’è la Sellerio che ha ben due collane di formato minimo: Il divano e La rosa dei venti: pubblicazione di 20 libri fondamentali per commemorare, nel 2009, i primi 40 anni della casa editrice, in formato 10,5X14,5.
Ma gli esempi sono molteplici. Theoria aveva I riflessi, che al numero 11 della collana ospitava Il libro degli esseri immaginari di Borges. Ci sono Le mongolfiere dell’Archinto che ospita alcuni libri di Manguel, Il computer di Sant’Agostino e Il Diario di un lettore, o il bellissimo A un bibliomane ignorante di Luciano di Samosata.
Bruno Mondadori Editore ha Testi e pretesti, di cui abbiamo recensito Bibliofollia di Alberto Castoldi. Ricordo la Collana Nugae de Il Melangolo, che ospitava autori quali Claudio Magris, Umberto Saba, Franco Ferrucci, Federico Fellini con la sua Giulietta, Mario Rigoni Stern, Raymond Queneau o Fosforo di Vasilij Grossman ecc. ecc.
Per non tacere della famosa collana MilleLire di Stampa Alternativa, con cui Marcello Baraghini nel 1989 portava alle estreme conseguenze il discorso del libro supereconomico, imbattendosi tra l’altro in un bestseller millenario, quella Lettera sulla felicità di Epicuro che nel 1992 rimase in testa alla classifica di vendita per molti mesi, rivoluzionando il mercato editoriale e spingendo altri editori all’emulazione.
Ma gli esempi sarebbero innumerevoli e sull’onda del ricordo delle famose Silerchie, Il Saggiatore pubblica questi racconti di Thomas Ligotti, numero 1203 della collana La cultura, in piccolo formato (10,5X15,5), ma con copertina rigida, com’era anche per Le Silerchie, collana storicamente curata da Giacomo Debenedetti (vedasi per credere Preludi. Le note editoriali alla Biblioteca delle Silerchie, Sellerio, 2012).
Thomas Ligotti è un narratore di culto. Lo abbiamo già ricordato recensendo il suo Teatro Grottesco e non abbiamo bisogno di ripeterci. In questa raccolta rimette in scena alcuni miti gotici, ricostruendo le vicende dei personaggi fondatori della storia del genere horror, che rivivono nei brevi racconti raccolti in questo pregevole libretto.
Il libro è diviso in sezioni. Abbiamo Tre scienziati, ovvero il dottor Moreau, il dottor Henry Jekyll e il celebre Victor Frankenstein, cittadino di Ginevra. Due immortali, il Conte Dracula, discendente di Attila, flagello di Dio e l’Uomo Lupo, all’anagrafe Lawrence Talbot.
La teoria dei personaggi del terrore continua con le storie di alcune Eroine gotiche, seguite dai celebri Solitari, per arrivare ai Reclusi. Le ultime due sezioni sono dedicate ai maestri del genere, numi tutelari che hanno ispirato l’intera produzione di Thomas Ligotti: Edgar Allan Poe (con i suoi celebri personaggi: William Wilson, Lady Ligeia e la rivisitazione della Casa Usher) e H.P. Lovercraft.
In fondo in questi racconti, in cui ricostruisce da anomali punti di vista la vita di celebri personaggi, Ligotti non fa che mettere in pratica le teorie che ha esposto ne La cospirazione contro la razza umana, e fondamentalmente esprime tutta la sua filosofia del pessimismo, affermando che la coscienza umana non sia che uno scellerato errore della Natura, ripercorrendo il solco tracciato da pensatori quali Nietzsche, Schopenhauer, Camus e Zapffe.
Rilke, nelle Elegie Duinesi, nega che gli animali abbiano coscienza del domani e della morte: «Libero da morte. Questa la vediamo noi soli; il libero animale ha sempre il suo tramonto dietro a sé». È il famoso tacchino induttivista di Bertrand Russell, è il pastore errante di Leopardi, che invidia l’incoscienza del gregge: «O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto!».
Cioran l’8 dicembre del 1971 scrive nel suo diario: «La sofferenza ha un solo scopo, un solo senso: aprire gli occhi, svegliare la mente, aumentare la conoscenza». È il senso anche del racconto Nella colonia penale di Kafka. Per qualcuno se la sofferenza aumenta la conoscenza nell’uomo, il dolore è la coscienza dell’animale, che avverte se stesso.
Ecco perché Thomas Ligotti esordisce con il racconto del dottor Moreau che cerca di umanizzare un lupo. E lo fa aumentando le dosi di dolore, nonostante abbia consapevolezza che il lupo non raggiungerà mai la perfezione ideale che cerca di fargli raggiungere e che il suo dolore cesserà soltanto con la morte sul tavolo operatorio.
«Poi, disgustato, prende dalla tasca del camice una piccola chiave d’oro e va verso una grossa porta, che cela un assortimento sconcertante di potenti droghe e strumenti di inimmaginabile dolore»
Così esordisce il libro, ma questo trattamento sadico per infliggere dolore continua, in una perversa apoteosi, coinvolgendo anche gli altri personaggi letterari che esperiscono la condizione umana: laddove essere coscienti è un dramma che finisce con la morte e la vita non è che sofferenza che inizia, direbbe ancora Cioran, dall’incoveniente di esser nati o, rincarerebbe Schopenhauer, la vita non è che l’espiazione del crimine di essere nati… nella Casa del Dolore (chiosa Ligotti).
Ma allora quello di Ligotti è semplice pessimismo, che sfocia nel sadismo, per saziare i lettori di storie dell’orrore che non sono mai paghi delle tragiche agonie offerte alla loro approvazione? A questo quesito risponde lo stesso autore nell’introduzione al volume, esponendo come anche la rappresentazione del dolore conduca alla consapevolezza della comune situazione esistenziale:
«Ciò non avviene per puro amore di sadismo, il dare alle vite un altro giro per il piacere di strappare nuove urla ai torturati. Si compie – è stato compiuto – a mo’ di autoflagellazione vicaria, brutalissimo schiocco di frusta che colpisce alla schiena i personaggi di fantasia e distrae l’autore dai colpi che la vita infligge a lui in uno specifico momento dell’esistenza. Ma in senso figurato, ciascuno di noi è condannato a inventare il proprio inferno. E dopo aver preso residenza in un pozzo, cerchiamo compagni con i quali dolerci: soci nel dolore, nostri pari condannati per i medesimi errori o abbagli, che siano intenzionali o meno».
Thomas Ligotti
La straziante resurrezione di Victor Frankenstein
The Agonizing Resurrection of Victor Frankenstein and Other Gothic Tales
Traduzione di Luca Fusari
Il Saggiatore, 2018