“La storia siamo noi, nessuno si senta offeso.
Siamo noi questo prato di aghi sotto al cielo.
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso”.
Non possono non venirmi alla mente queste parole, tratte dal brano La storia siamo noi di Francesco De Gregori, per introdurre l’ultima fatica letteraria di Maurizio Maggiani.
La storia è là, a portata di mano: sta a noi coglierla per farla diventare nostra, sta a noi contribuire portando nuova legna per alimentare il suo fuoco.
È proprio questo che fa de Il Romanzo della Nazione, non una classica opera storiografica sul fascismo, sulla Resistenza, sugli anni di piombo o su chissà cos’altro: se la Storia appartiene a tutti coloro che danno un contributo a costruire la Nazione, merita di essere narrata anche la loro storia individuale.
In tal senso, l’autore scrive ispirato dal padre Dino, che è stato indubbiamente un costruttore di nazioni. Alla sua morte, la morte di un uomo che ha combattuto dalla parte della Resistenza (e nel tentativo, andato a buon fine, di nascondersi in casa di contadini e di rifocillarsi, conosce l’Adorna, madre dell’autore) e che successivamente è stato comunista e socialista. Un uomo che, seppur umile elettricista, ha dimostrato amore per la poesia (ne ha scritta qualcuna all’austera moglie) nonché sensibilità per la musica e per la cultura e che è arrivato a piangere calde lacrime alla notizia della morte di Togliatti e di J.F. Kennedy.
Ma la storia fa rima con vittoria, ma solo sulla carta, non necessariamente nella vita. Perché costruire la propria Nazione cercando di trasformare in realtà il sogno che si ha in testa è un’impresa ardua e, il più delle volte, non destinata al successo. Addirittura Garibaldi, entrando nel Parlamento del nuovo Regno d’Italia, notando i deputati in marsina e i loro cappelli a cilindro e bastoni col pomo d’avorio nel guardaroba, ebbe a dire deluso: “Non era questa l’Italia che sognavo!”.
“Vivere di sogni è un’utopia” è la massima che scriverà invece il padre di Maggiani e che nel libro diverrà una sorta di ritornello.
Cosa resta infatti di Dino nei suoi ultimi anni? Un vecchio malato di demenza senile, dalle mani rese ruvide e spellate dal contatto più che quarantennale con i fili elettrici.
Riferendosi al padre e ai suoi simili, il figlio-autore sentenzierà, netto e quasi rabbioso:
“… come facessero non lo so, ma era tutta gente che sognava mentre lavorava, e quello che avrebbero fatto con il loro lavoro era la loro utopia. E sono finiti all’Istituto Giuseppe Mazzini, impacchettati nei pannolini, rincretiniti dal loro lavoro. E più in là del laghetto delle tartarughe non vedono nessuna nazione, non vedono niente perché non c’è niente. Semplicemente non c’è niente. E io sono qui, e sono un niente in mezzo a questo niente, peggio di niente agli occhi di un uomo che ha creduto nelle sue mani”.
Un’affermazione nichilista, non c’è che dire, in cui emerge tutto il senso di inferiorità della generazione più giovane, viziata, indebolita dalle comodità, che si è trovata davanti la Nazione già bell’e fatta dalla generazione precedente.
Maggiani esemplifica ancora meglio questa sua sensazione riferendosi agli arcinoti fatti del ‘68 a cui ha partecipato da studente furioso contro il sistema, paragonandosi al padre che negli anni della Resistenza e del dopoguerra tentava, come molti altri, fra mille peripezie e mille difficoltà, di issarsi sulle spalle la Nazione, con l’intento di rifondarla. Sono chiare le sue parole:
“abbiamo avuto una gioventù di rivolte (…). Siamo stati la generazione della rivolta generale. Non dico rivoluzione, no, dico rivolta (…). Ci siamo rivoltati contro i nostri padri e ci è sembrata una buona cosa (…). Sono venuto a mettere la spada tra padre e figlio, tra figlia e madre. Solo che abbiamo visto male, eravamo troppo viziati per vederci chiaro. Siamo incappati nel vecchio errore del toro nell’arena. Abbiamo puntato alla muleta invece che al torero. Abbiamo puntato ai nostri papà e alle nostre mamme invece che ai nostri padri e alle nostre madri. Avremmo dovuto prendere i nostri padri e attaccarli al muro e pretendere che sganciassero la loro eredità. L’eredità che si tenevano ben stretta pieni com’erano della superbia per ciò che avevano fatto”.
Tale senso di inferiorità sale all’ennesima potenza in confronto a generazioni ancora precedenti, riferendosi ad un altro evento specifico della storia: la costruzione dell’Arsenale Militare della natìa La Spezia, voluta da Cavour, a cui accorrono, pieni di sogni e di speranze, uomini e donne da ogni parte di quella che si chiamerà Italia, di tutte le classi sociali e con le competenze professionali più disparate, effetto di rispettabilissime storie individuali.
Il principale risultato delle loro fatiche sarà la costruzione della corazzata Dandolo, vera e propria avanguardia per l’epoca, da far tremare i polsi a tutte le Marine Militari del mondo ma che, stranezze della storia, non sparerà mai un colpo dai suoi cannoni! Verrà invece utilizzata, a scopi assolutamente pacifici, per soccorrere i terremotati di Messina nel 1908.
L’unico modo che l’autore trova per lenire il senso di inadeguatezza che lo pervade nei confronti della storia è raccontato nel capitolo finale del libro: rifugiarsi lontano, in campagna, dove “sono solo i dettagli che cambiano”, Mentre la sostanza non viene corrosa da una modernità cittadina che rende freddi e indifferenti verso la Nazione e le sue necessità. Racconta lo scrittore, relativamente alla sua nuova vita fra i contadini: “in fatto di conservazione qui le cose vanno alla grande. Infatti ci sono ancora i comunisti, e più dei comunisti qui ci sono ancora i repubblicani. I mazziniani quelli feroci, i mazziniani materialisti di DIO È POPOLO.”.
Un’opera, insomma, nella quale l’autore è vinto dalla nostalgia, dall’amarezza e dal bisogno di chiedere perdono al padre e alla sua generazione; ma, fra vicende personali, eroi del Risorgimento italiano, personaggi investiti del ruolo di creatori di nuove nazioni (vedi Fatima e la Palestina), non è facile per il lettore seguire i mille rivoli in cui la narrazione si disperde e nemmeno concordare sempre con le opinioni a cui l’autore giunge al termine dei suoi ragionamenti.
Un libro decisamente complesso, che arriva dopo molti altri che hanno affrontato tematiche inerenti la guerra e la Resistenza: il lettore ne è già abituato e, per dirla tutta, un po’ assuefatto.