Sentendo proferire il nome di Jack London, vengono subito in mente “Zanna Bianca” e “Il richiamo della foresta”, più raramente quei capolavori intitolati “Il tallone di ferro” e “Martin Eden”. “Il popolo dell’abisso” generalmente dice poco o nulla.
In realtà più che di un libro si può parlare di un vero e proprio pugno nello stomaco, di una lenta ed inesorabile discesa nelle profondità di quell’abisso chiamato East End londinese, non frutto della fantasia, bensì dell’esperienza di strada fatta dallo stesso London nell’estate del 1902.
In questa opera lo scrittore si fa quasi sociologo, scende in campo in prima persona e, dopo essersi travestito da vagabondo, condivide per alcuni giorni la sua vita con quella di clochard, disoccupati, operaie e ragazzi di strada dell’East End di Londra, slum proletario situato a ridosso della zona dei docks del fiume Tamigi dove appena 15 anni prima aveva imperversato il famigerato Jack lo Squartatore. E il buon Jack non si limita soltanto a scrivere e riportare quello che vede, ma lo fissa sulla celluloide con una macchina fotografica che era solito portarsi dietro, così da fornire una testimonianza ancora più vivida ed impattante.
Il risultato è un’opera a metà fra il romanzo e il saggio (sicuramente un po’ più il secondo che il primo), in cui la realtà non viene mai persa di vista ma si lascia anche lo spazio alle riflessioni personali dell’autore che, con l’occhio critico di fiore all’occhiello del giovane movimento socialista statunitense, riesce a trasmettere l’angoscia e lo stupore, la rabbia e lo sdegno per una situazione così spaventosa, degradante e disumana.
Diversamente da uno Zola, che una trentina di anni prima aveva romanzato alcuni dei peggiori angoli di Parigi tratteggiandone gli abitanti con “pennellate” di inchiostro a metà fra l’impressionista e l’espressionista, London spiattella dati numerici nudi e crudi (rapporti della polizia, relazioni mediche, studi sociologici e altro ancora) riguardanti le spaventose condizioni del proletariato londinese senza tuttavia scadere nella sterile e pedissequa elencazione di atrocità: spesso e volentieri non si limita a criticare, ma prova a capire il perché di questo disagio diffuso e talvolta si spinge a fornire quelle che per lui possono essere delle soluzioni ai vari problemi.
Alcuni dei personaggi che London descrive riescono, fra l’altro, ad elevarsi così tanto da sembrare quasi dei piccoli eroi di strada, ciabattini, portuali, operai che con i loro sforzi quotidiani e la loro dignità riescono ad elevare tutta quella massa umana informe (non priva di colpe ovviamente) e che, con le loro gesta e i loro piccoli nobili pensieri, riscaldano il cuore del lettore lasciando trasparire tutto il fervore socialista dell’autore.
Certo, oggigiorno alcune delle sue critiche possono sembrare un po’ ingenue e a tratti anche ipocrite (gli slums di Londra non dovevano essere poi tanto peggiori di quelli di New York o di una qualsivoglia metropoli statunitense), soprattutto quando cerca di mettere in contrapposizione il nuovo mondo, così fervente di idee ed energie umane, con il vecchio continente, così malandato, decadente e incapace di pompare nuova linfa vitale nei cuori dei suoi cittadini. Tuttavia, la critica spesso feroce e tagliente (soprattutto alla famiglia reale e ai poteri forti) non risulta mai gratuita o disperata, e deve essere analizzata cercando di mettersi nei panni di uno scrittore che, prima ancora di essere tale, è un essere umano e un militante che filtra le sue esperienze attraverso il setaccio dell’ideologia socialista.
Al netto di qualche disomogeneità e ripetitività nella struttura narrativa e di qualche pensiero forse un po’ ingenuo, Il popolo dell’abisso resta un documento storico e sociologico di elevatissimo spessore, tradotto in prosa da un grande scrittore che negli anni successivi si sarebbe distinto in tutto il mondo per le sue eccezionali capacità narrative.
Titolo: Il popolo dell’abisso
Autore: Jack London
Curatore: M. Maffi
Anno: 2014
Editore: Mondadori