Bollino rosso: attenzione: la lettura della seguente recensione è adatta ad un solo pubblico adulto.

Chi, tra di voi, si trova nella condizione di minorenne, debole di cuore, ipersensibile oppure facilmente impressionabile alla vista del sangue è invitato ad astenersi dal leggere.

Ok, siete stati avvertiti.

Il Male è in mezzo a noi. Il demonio, per chi non lesina sopra una spruzzata di religiosità, esiste e si muove tra di noi, tanto da far percepire alle nostre spalle il suo alito di morte. Il Male assume le sembianze dell’educato vicino di casa, del silenzioso tale che attende con le gambe incrociate il bus alla fermata, o del formale impiegato che, mite, se ne sta dietro la sua scrivania. E, quando meno te l’aspetti, colpisce, spietato. Caino non smette di spargere il sangue di Abele in ogni parte del mondo.

Fu così anche nell’allora Unione Sovietica, sebbene la figura dell’assassino seriale ricordi più che altro il cittadino disadattato spinto a muoversi fra individui solo apparentemente incolpevoli, parte in realtà di un contesto sociale pregno di invidie, competitività, ambizioni, derivazione diretta del bieco capitalismo filo-americano.

Andrej Romanovič Čikatilo
Andrej Romanovič Čikatilo

“Il giardino delle mosche” di Andrea Tarabbia (finalista Premio Campiello) ricostruisce la vicenda, realmente accaduta, di Andrej Romanovič Čikatilo,che, fra il 1978 e il 1990 fu responsabile, nel paese caposaldo del comunismo, di una cinquantina di omicidi.

Ma, sia chiaro, non ci si imbatte nella classica opera giornalistica inerente fatti di cronaca nera. Qui l’autore (del libro) quasi si identifica con l’autore (degli assassinii) e fa parlare quest’ultimo in prima persona, immaginandone la confessione resa dinanzi al capo della polizia che dopo tanto (troppo) tempo lo catturò.

È dal suo racconto che apprendiamo della sua infanzia, durante la quale protagonista assoluto fu il Golodomor, ossia la carestia che colpì l’Ucraina negli anni trenta, successivamente rafforzato dalle angherie naziste sulla popolazione inerme e dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Fu in questa fase della vita che il fratello Stepan scomparve, probabilmente divorato da vicini di casa resi cannibali dalla fame, salvo poi “ricomparire”, nella mente di Čikatilo, quando costui poté già stilare un curriculum di serial killer di tutto rispetto; ricomparì, ma stavolta in carne e ossa, il padre, dato per disperso in guerra, ma poi per tutta la vita etichettato come traditore della patria per non aver preferito la morte alla semplice reclusione nelle prigioni di Hitler; fu nel corso di questo periodo che la madre, che partorirà una figlia come conseguenza delle violenze carnali dei soldati nazisti, umiliò il figlio perché colpevole di bagnare il letto.

Ma l’incontinenza non fu che l’ultimo dei problemi del giovane Andrej, che soffrì di altre, ben più significative, mutilazioni (in questo modo lui le chiama): la scarsità della vista e, soprattutto, essenziale per comprendere omicidi tutti a sfondo sessuale, una disfunzione erettile che tuttavia non impedì a Čikatilo di avere due figli, generati, si immagina lo scrittore, con una considerevole fatica, qui descritta nei suoi lati più pratici.

Da questo momento in poi, causa la frustrazione provata per quest’ultima mutilazione e i troppi traumi subiti nel passato, per Čikatilo divenne impossibile separare il piacere dal dolore.

Accompagnato dalla sua “cassetta degli attrezzi”, comune ad un qualsiasi fabbro o idraulico, il mostro si accanì particolarmente sulle vittime prescelte, principalmente giovani donne ma non solo, non limitandosi a inferire coltellate e martellate in testa ma, fedele ad un rito decisamente sadico, estirpando seni, sezionando corpi per asportare l’utero o strappando a morsi fallo e genitali, con i malcapitati ancora vivi. E mentre ormai la lotta fra la vita e la morte si fa sempre più un miscuglio di umori umani, siano essi sangue, saliva o sperma, con i loro caratteristici odori, quale suggello finale della pratica omicida, solitamente ebbe luogo la cavatura degli occhi dalle orbite, affinché l’ultima immagine impressa ai disgraziati prima di varcare la soglia dell’Ade fosse il volto del carnefice-dio onnipotente.

Da sottolineare altresì l’aspetto politico: Čikatilo, fervente comunista con tanto di tessera di partito, ma la cui vita lavorativa non era esente da macchie (scarso impegno, accuse di furto e di pedofilia) che lo costrinsero a cambiare spesso impiego, sceglieva le sue vittime fra coloro che apparivano ai suoi occhi come emarginati, scansafatiche, socialmente sradicati e dunque inidonei a portare avanti l’importante progetto di organizzazione della società comunista; ciò proprio mentre i tempi stavano cambiando e la Perestrojka di Mikhail Gorbachev, visto dal protagonista come il fumo negli occhi, sancì la sconfitta dell’ideologia comunista e il suo definitivo tramonto.

La vicenda di Čikatilo non poté che concludersi con la pena di morte, proprio mentre costui tentò di intraprendere la strada dell’autodifesa esaltando i suoi meriti verso il comunismo ma nel contempo invocando invano l’infermità mentale.

Dal profilo eminentemente gotico, un’ombra scura appena intravista dai presenti all’esecuzione capitale, sembra allontanarsi dal corpo del pluriomicida: forse la sua anima nera che viaggia svelta verso gli inferi, oppure il fantasma del premorto fratello Stepan, assurto a ruolo di guida spirituale moralizzatrice.

Ci troviamo insomma di fronte ad un libro intenso, rivolto a chi è disposto a liberarsi delle proprie difese e a farsi letteralmente prendere per mano dal Male. Abbandonando residue speranze di una possibile redenzione dell’umanità. O, più genericamente,  per quel pubblico che, ormai avvezzo a fungere con regolarità direttamente a domicilio in TV e on line su Youtube il genere horror e la spettacolarizzazione dello splatter, di tali illusioni, non ne ha più da tempo.             

Lascio infine proprio a questi lettori la curiosità di scoprire il perché del titolo…

Autore: Andrea Tarabbia
Titolo: il giardino delle mosche
Editore: Ponte alle Grazie
Anno: 2015