Il nuovo capitolo della fortunata saga di Daniel Pennac arriva ben 18 (18!) anni dopo La Passione secondo Thérèse e, come forse era prevedibile, difficilmente si lascia definire in sé. Innanzitutto, si tratta solo della prima “puntata” di un volume doppio – scelta, per altro, abbastanza discutibile vista la conclusione ex abrupto a metà della storia. Ma è il legame inscindibile con gli illustri precedenti dell’opera Malaussène, soprattutto, a farne un prodotto quasi esclusivamente riservato ai conoscitori, e amanti, della saga.
Non basta, infatti, il ricambio generazionale che ha investito la tribù dei Malaussène a far sì che le giovani leve assurgano effettivamente al ruolo di (nuove) protagoniste. Lo stesso Pennac sembra animato da sentimenti contrastanti: da un lato l’affezione per i vecchi personaggi, dall’altro la necessità di guardare – e parlare – del presente al presente, non con l’occhio nostalgico di chi lo rifiuta né con quello entusiasta di chi vuole specchiarvisi a tutti i costi.
Detto questo, almeno in teoria, chi ha amato i precedenti libri della serie dovrebbe fare i salti dalla gioia all’idea di potersi gustare – dopo tante smentite dello stesso Pennac – una nuova strampalata avventura di Benjamin, Julius, Julie e tutta la tribù al completo.
Eppure, anche tra i più incalliti fan di Malaussène quanti non si sono posti almeno per un attimo il problema se valesse la pena di scomodare il ricordo perfetto lasciato dai precedenti romanzi per inoltrarsi in questo ignoto? Insomma, sarà ancora il Pennac di una volta?
La risposta, per quanto mi riguarda, è stata un sì. Non solo i Malaussène non sembrano passare mai di moda, ma Pennac, da grande narratore, non nega il tempo che passa, e neppure la vecchiaia – né la sua, né quella dei suoi protagonisti – ma la accetta, la metabolizza e ancora di più la sintetizza in una storia che, per una volta, rifiuta il modello di contrapposizione conflittuale tra vecchie e nuove generazioni.
Ma c’è un altro grande problema impossibile da eludere una volta di fronte al libro: come tornare a ridere e piangere con Malaussène e la sua amara ironia in quegli angoli di Parigi che non saranno più gli stessi dopo il 13 novembre 2015? Certe ferite non si rimarginano con il tempo. E la leggerezza con cui le falcate di Malaussène disegnavano i perimetri di Goncourt, Belleville, Faubourg du Temple è stata spazzata via per sempre da una sventagliata di kalashnikov, o meglio, da una
totale assenza di immaginazione, questa la tragedia. Frustrazione. Futuro morto. A breve termine.
come chiosa a un certo punto il mitico capitano Adrien Titus. Così tra vecchiaia incipiente, orrori impensabili, figli e nipoti in giro per il mondo, anche i passi di Malaussène si sono fatti pesanti, stanchi. Del resto Benjamin-Pennac non poteva ignorare, far finta di nulla, rifugiarsi nel paradiso della finzione come se quegli stessi angoli che ha scolpito nella nostra fantasia non si fossero trasformati in altrettanti scenari di morte.
Questo non significa, però, che Il caso Malaussène sia (solo) un romanzo politico. Basti pensare che dai problemi attuali della società francese la riflessione riesce ad allargarsi fino ai confini del romanzo stesso, arrivando a farsi “meta” e mettendo in guardia il lettore dai pericoli dell’eccesso di coerenza narrativa. Il romanziere è come l’investigatore, azzarda Pennac, alla ricerca di un perfetto punto di convergenza tra fatti, idee, moventi e fini. Il problema è che, almeno in questa storia, chi cerca non trova mai quello che sperava.
Unica certezza granitica, al netto di un finale non finito e in attesa di tuffarci nel prossimo capitolo, è sempre la stessa: la salvezza, se ce ne sarà una, non arriva né dallo Stato né dall’individuo. Quella di Malaussène è e resta una comunità tribale che satura tutto ciò che sta nel mezzo e che, soprattutto, è l’unica ancora in grado di dare senso alla parola giustizia.
Autore: Daniel Pennac
Titolo: Il caso Malaussène
Titolo originale: Le cas Malaussène
Traduzione: Yasmina Mélaouah
Editore: Feltrinelli
Anno: 2017