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Il brevetto del geco – Tiziano Scarpa

Recensione - Il brevetto del geco - Tiziano Scarpa

Questo libro si può definire una sorta di cantico delle creature postmoderno.

Fin dal titolo rivela infatti, nei termini di un arcano, la sua essenza. Il brevetto del geco, grazie al quale questa creatura si può arrampicare dappertutto, appartiene infatti a Dio. E la religione è uno dei pilastri portanti di questo libro. Ma non solo. Perché questo è un libro mondo, nel quale coesistono infinite tematiche, che spaziano dall’arte alla scienza, dalla spiritualità alla morale, dalla letteratura alla società.

È anche l’unico romanzo italiano contemporaneo che possa competere, avendone le stigmate, con il grande romanzo americano, quello dei Don DeLillo e dei Franzen, per intenderci.

Un libro veramente denso e complesso. Che inserisce tra le sue pagine rimandi vagamente cannibaleschi, come la scena di una festa milanese. O un decalogo dell’artista. O tra parentesi le opinioni di un non nato, uno spirito che sarebbe potuto essere, ma non sarà mai, che si affida alle parole di un narratore, per poter esistere nella sua situazione di essere ‘Interrotto’.

Personaggi che leggono i peggioristi: Bernhard, Caraco, Ceronetti, Cioran, Schopenhauer, Rensi, per sentirsi meglio e pensare che potrebbe anche andare peggio di come va. Cani parlanti e fughe d’invidia quali fughe di gas. Descrizioni della Milano del passato che fuoriescono direttamente dal romanzo Silenzio a Milano (del 1958) della Ortese, come a voler sottolineare che la realtà o la capacità di descriverla sia solo nei romanzi.

Eppure questa complessa densità di riferimenti e rimandi risulta leggera al lettore.

Il romanzo è sorprendentemente scorrevole e la trama lineare. Seguiamo infatti due personaggi alternativamente. In un capitolo Federico Morpio e nel successivo Adele Cassetti. Due destini distinti, due percorsi paralleli che si srotolano in un giardino dei sentieri che alla fine si uniscono. Due personaggi che sono due vinti, apparentemente anonimi.

Federico Morpio è un artista fallito, che incontriamo al termine della sua parabola discendente. Un artista che osserva il mondo dal proprio personale e monomaniaco punto di vista. Un figlio che osservando il padre sul letto di morte non può trattenersi dal paragonarlo a una filiforme scultura di Giacometti. Un artista che guarda il mondo per poterlo trasformare in opera d’arte:

«Che senso ha dare retta al mondo, che senso ha viverlo, se non per ricavarne un’opera?».

Ma nonostante si guardi continuamente in giro, Morpio non trova più segni di bellezza nel mondo. L’arte contemporanea è degenerata insieme a ogni cosa. Il principio fondante della nuova arte è che se non riesci a fare qualcosa di grandioso, allora fallo grandissimo. L’abbacinante bellezza delle grandi opere del passato si è trasformata nella brutale bruttezza delle giganti opere pop che definiscono il postmoderno (o il postmortem).

Il secondo personaggio è tale Adele Cassetti. Un’impiegata anonima che si aggira come un fantasma tra le strade di Milano. Ad un certo punto così come San Paolo si convertì cadendo da cavallo, in lei avviene un cambiamento spirituale nell’osservazione dei movimenti del fatidico geco. Le sue lunghe passeggiate, da lì in poi, la porteranno a contatto con la natura della periferia di Milano.

Infine sarà l’incontro con Ottavio e un lungo platonico corteggiamento a sconvolgere per sempre la sua vita. La loro sarà in principio un’iniziazione religiosa, che muove i primi passi tra la bruttezza di una chiesa moderna. Una chiesa illuminata da neon e da candele elettriche, una chiesa dove il contatto stesso con Dio avviene in un ambiente freddo, privo di bellezza.

La ricerca della bellezza porterà allora Ottavio e Adele all’Accademia di Brera. L’uno affascinato dalla Cena di Emmaus del Caravaggio, nel quale il Cristo si manifesta dopo la sua morte; mentre Adele mostrerà a Ottavio l’umanità del figlio di Dio nei buchi dei piedi messi in primo piano, nel Cristo morto del Mantegna. Un rapporto tra i due che  sfocerà infine in un progetto sovversivo.

E se i personaggi si muovono inquieti in una Milano che mette in luce i limiti della grande metropoli. Il momento dello scioglimento della trama avverrà invece a Venezia, luogo di quiete nell’incanto della laguna, luogo natio dell’autore stesso.

Ma la ricchezza di questo romanzo è davvero difficile poterla anche solo accennare nella brevità di una recensione.

Una ricchezza fatta di continui rimandi artistici e scientifici, che costituiscono delle vere e proprie scoperte per il lettore. Scoperte bizzarre, come il fatto di apprendere che il cronovisore, invenzione di padre Ernetti, con l’apporto di Enrico Fermi e Werner Von Braun, che poteva apparire una trovata di Scarpa, è invece realmente esistito. Perché si rimane sempre in bilico nel dubitare di quello che è reale e di quello che è solo romanzesco.

Questo è insomma il grande romanzo della maturità di Tiziano Scarpa. Da consigliare assolutamente a tutti coloro per i quali la letteratura italiana è diventata pian piano secondaria, non riuscendo a scorgere nell’orizzonte letterario nostrano un romanzo degno di questo nome e sono diventati, loro malgrado, esterofili, mentre questo libro risulta la luminosa eccezione che conferma la tristezza di una regola.

Tiziano Scarpa
Il brevetto del geco
Editore: Einaudi
Anno: 2016

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