“Ernest, se muoio prima di te voglio che ci sia una benedizione e che tu racconti come mi hai chiesto di sposarti a Roquebrune.” Povera Jeanette. In un tempo ormai ridotto a materia indistinta, le avevo chiesto la mano attraverso lo spioncino di una segreta medioevale in cui l’avevo rinchiusa. Se sapesse a che punto Roquebrune abbia perso ogni significato per me. A che punto quel passato si sia dissolto e volatilizzato. Due persone vivono fianco a fianco e ogni giorno la loro immaginazione le allontana in modo sempre più definitivo.
Ernest e Jeanette sono solo due dei fili che tessono la tela di Felici i felici (Adelphi, 2013). Yasmina Reza orchestra, intorno e accanto alla loro esausta vita matrimoniale, quella della figlia Odile e del marito di lei, Robert, e le vicende di una piccola ma variopinta schiera di amici, conoscenti, amanti.
Romanzo a più voci, ogni capitolo è dedicato a un diverso personaggio che riversa e condensa in pagine di eccezionale intensità il proprio dramma. La Reza individua così le crepe sottili che si fanno strada, inosservate ma letali, nell’esistenza di ciascuno: è infatti impossibile non riconoscere anche noi, in queste crepe, qualcosa di familiare, non sentirci cadere dal volto una maschera che non sapevamo d’indossare, non avvederci insomma della presenza, nella nostra vita, di zone d’ombra da cui abbiamo sempre tenuto fermamente lontano lo sguardo.
Come già aveva lasciato intendere la commedia, breve ma acutissima, Il dio del massacro (Adelphi 2011), e come ha confermato di recente Babilonia (Adelphi 2017), Yasmina Reza dimostra anche in questo caso di saper dissezionare con chirurgica precisione l’esistenza umana, malata di una costituzionale infelicità, e di saper stregare il lettore suscitandogli un’irresistibile attrazione verso ciò che non vuole vedere.
“Felici gli amati e gli amanti, e coloro che possono prescindere dall’amore” – riecheggiano in esergo le parole di Borges. Ma è davvero così? Gli attori che si muovono sul palco di Felici i felici sembrano affermare il contrario.
Soffrono i coniugi Hutner, la cui esistenza apparentemente perfetta è in realtà piegata nell’apprensione per un figlio che ha perso la propria identità; soffre Chantal, che dopo aver evitato per anni l’infelicità coniugale si scopre intrappolata in un’infelicità diversa da quella, ma non più mite; soffre Paola, ridotta a mero abbellimento nella vita già affollata dell’uomo che ama; soffre il dottor Chemla, impegnato a dare sollievo ai propri pazienti, ma incapace di darne a se stesso:
Non sogno un’unione, un idillio, non sogno nessuna felicità sentimentale più o meno duratura, no, vorrei conoscere un certa forma di tristezza. La intuisco. Può darsi che l’abbia già provata. Una sensazione a metà tra il vuoto e il groppo in gola dell’infanzia. Vorrei imbattermi, tra le centinaia di corpi che desidero, in quello che abbia il dono di ferirmi.
Cos’è, dunque, la felicità?
Nessuna delle voci narranti sembra aver trovato risposta. Una soluzione ha forse saputo suggerirla soltanto Antoine, il figlio di Odile e Robert: non a caso un bambino, una voce pura che parla dall’universo impenetrabile, dorato (e perduto) dell’infanzia:
Non molto tempo fa mio suocero, Ernest Blot, ha detto a nostro figlio di nove anni, ti compro una stilografica nuova, con questa ti macchi le dita. Antoine ha risposto, non ti scomodare, non ho più bisogno di una penna che mi faccia felice. Ecco il segreto, ha detto Ernest, questo bambino l’ha capito, ridurre al minimo le pretese di felicità.
Autore: Yasmina Reza
Titolo: Felici i felici
Titolo originale: Heureux les heureux
Traduzione: Maurizia Balmelli
Editore: Adelphi
Anno: 2013