Anche Piego di Libri Blog ha dato quest’anno il suo contributo a La Fiera delle Parole di Padova (dal 6 all’11 ottobre) con una serie di incontri con le sorprese letterarie più interessanti del 2015.
Mercoledì 7 ottobre – Ore 16:00 – Libreria Feltrinelli
Carmen Pellegrino presenta “Cade la terra” (Giunti)
con Matteo Bugliaro
L’abbandonologia più che una disciplina è una condizione dell’anima. Significa stare dalla parte del pessimismo cosmico leopardiano e della nostalgia del posto delle fragole. Ascoltare una murder ballad di Nick Cave o un blues amaro di Tom Waits. Vuol dire avere immaginazione e bazzicare i bassifondi e il cielo sopra Berlino, mentre dal pontile si saluta malinconicamente una nave in partenza, destinata all’allegria di naufragi.
Significa anche credere nella persistenza della memoria. Percepire i ricordi sotto forma di quei fantasmi del passato che infestano festosamente le case diroccate, i castelli abbandonati, i teatri in decadenza, i luna park deserti in cui le giostre a catenella girano sospinte dal vento in uno stridulo cigolìo, mentre nel buio del tunnel dell’orrore, pupazzi di cartapesta annuiscono catatonici al nulla.
Carmen Pellegrino è l’abbandonologa per eccellenza, che ha fatto di questa tendenza e di questo stato d’animo una professione e una ragione di vita.
C’è morte dappertutto. Come solo nel Gattopardo o in Céline. In questo Cade la terra, che ha davvero l’andamento lento di un grande classico, di quelli da leggere e rileggere per l’eternità, perché questo romanzo vive dell’esorcismo di non voler essere abbandonato in un luogo in disuso, al buio tra le ragnatele, dove rimanere dimenticato per sempre.
La mancanza d’ansia della Pellegrino (diversamente da certi giovani narratori moderni, ansiosi di dire tutto e di dirlo subito), che ricama dettagli senza fretta, col paziente uncinetto di una prosa esatta. Sceglie gli aggettivi tra quelli meno appariscenti, come dei bottoni da una scatola di latta, che risultano essere, alla luce dei fatti, quelli necessari.
Passi come: «Questo grande albero dal sonno insonne, questo generoso fracassone dall’odore povero credeva nella gioia di darsi, come fa il frutto che cade, felice com’è di farlo, perché solo ciò che non si dà muore». In cui riecheggiano le Elegie duinesi:
«Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti
dei nocciòli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera
E noi che pensiamo la felicità
Come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante,
di quando cosa ch’è felice, cade».
Tutto è in bilico, periclitante, sull’orlo della frana che incombe come una sentenza definitiva pronta a investire il borgo vecchio di Alento. Estella in fuga da un convento di suore si ritrova nuda sul sagrato della chiesa, in compagnia del cane Gedeone. Nel suo destino c’è Marcello, il figlio dei de Paolis, che ha bisogno, per il suo temperamento bizzaro, di un precettore. Il romanzo vive dell’incontro di queste due personalità.
Le due voci narranti si alternano di capitolo in capitolo. Prima Estella e poi Marcello e poi di nuovo Estella ci raccontano la loro verità e le loro bugie. La storia esce dalle nebbie del mistero iniziale narrata dal loro punto di vista. Mentre la frana avanza lentamente e trascina il paese e i suoi sopravvissuti verso il basso.
Una volta morto il paese rivive nel ricordo. Viene riesumato nel racconto. Estella rimane sola nel paese deserto, con l’affollata compagnia dei suoi soli ricordi: una sola moltitudine di personaggi che popolano il romanzo rendendolo una nuova prosaica Spoon River.
Ma tutto è già avvenuto. Come dice uno dei personaggi verso la fine del racconto, Giacinto, il vecchio banditore, mentre con passo fermo e regolare si allontana: «Solo ciò che viene detto è accaduto. Perciò vado a dirlo».
L’atmosfera del romanzo è quella di una malinconica ricordanza. Del dover narrare perché i fantasmi del passato non si dissolvano, ma rimangano invischiati nelle vecchie rovine di Alento, vecchio borgo, piccola città, bastardo posto.
Terminato il romanzo si è infine atterriti da un sospetto, che allontaniamo fischiettando perché: «Avevamo studiato per l’aldilà un fischio, un segno di riconoscimento. Mi provo a modularlo nella speranza che tutti siamo già morti senza saperlo».
Carmen Pellegrino
Cade la terra
Giunti
Anno 2015