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Bagliori a San Pietroburgo – Jan Brokken

Bagliori a San Pietroburgo

Jan Brokken è un giornalista e scrittore olandese molto prolifico, la sua opera prima, Mata Hari, è del 1975, da allora ha pubblicato altre 27 opere, fino a questo Bagliori a San Pietroburgo uscito in patria l’anno scorso e ora prontamente tradotto dalla casa editrice Iperborea, senza la quale Brokken risulterebbe un perfetto sconosciuto in Italia.

Iperborea ha cominciato a pubblicare Brokken nel 2011, con Nella casa del pianista; al quale sono seguiti Anime Baltiche, libro non dissimile da quello che stiamo presentando, essendo composto da brevi saggi narrativi; Il giardino dei cosacchi; fino a questi Bagliori.

Del resto abbiamo già più volte recensito libri della casa editrice Iperborea, che ha fatto scoprire in Italia un imperdibile fluorilegio di artisti nordici: dal compatriota di Brokken: Cees Nooteboom, all’entomologo Fredrik Sjöberg, di cui è uscito da poco L’Arte della fuga; senza dimenticare gli svedesi Majgull Axelsson e Jonas Hassen Khemiri.

Ma in cosa consistono questi Bagliori a San Pietroburgo?

Sono per lo più immagini indelebili, fosfeni, fenomeni entoptici che rimangono impressi sulla retina, come una figura luminosa la cui sagoma persista al repentino chiudersi delle palpebre, alla fine della lettura.

Brokken rievoca Anna Achmatova in piedi fuori dal carcere, sulla riva della Neva, di fronte alla fortezza del terrore, la famigerata prigione di Krestij, giorno e notte in attesa di notizie del figlio arrestato. In piedi immobile sotto la neve, proprio dove poi erigeranno la sua statua, simile alla moglie di Lot, trasformata nel mito in una statua di sale.

In un altro flashback ci appare Solženicyn, immortale autore di Una giornata di Ivan Denisovič, che non ha il coraggio di comparire al cospetto di Nabokov e se ne rimane fuori dalla porta a bussola del Montreux Palace. Anche lui sotto la neve, stropicciando il cappello che tiene nelle mani (come Renzo e i suoi capponi), mentre all’interno Vladimir e Vera Nabokov attendono invano, sorseggiando un tè davanti al caminetto.

Un saturnino Rachmaninov preda del male oscuro, che fissa per tre anni il vuoto, bloccato nella cupa inerzia della depressione, e finisce in cura dall’ipnoterapeuta Nicolaj Dahl, dopo che la sua Sinfonia n.1, eseguita per la prima volta a San Pietroburgo nel 1897, venne fischiata e stroncata dalla critica.

Al contrario ecco l’immagine di un giovane Dostoevskij folgorato dall’inaspettato successo del suo primo romanzo, Povera gente, forse dovuto anche a concomitanze topografiche, all’influsso del luogo in cui si trovava quando scrisse l’opera, oltre che frutto precoce dell’indiscusso genio dell’autore:

«Fëdor poté venire immediatamente annoverato tra i grandi della letteratura e vivere negli agi. In quella stessa strada, la Malaja Morskaja, viveva Turgenev, nei rari momenti in cui non era all’estero, e Gogol’ quando cominciò Memorie di un pazzo: tutti nella stessa strada, che non era nemmeno molto lunga. È solo a San Pietroburgo che può succedere»

Magia di San Pietroburgo, che poche volte nella storia si è ripetuta in altri luoghi: ad esempio, con ancora maggiore concentrazione, penso allo Stift di Tubinga, il celebre collegio di studi teologici che ospitò nello stesso periodo, tra le stesse strette mura, il poeta Hölderlin e i futuri grandi filosofi Hegel e Schelling.

D’altro canto la storia è costellata di celebri incontri: per rimanere nell’ambito delle patrie lettere c’è stata la serata del 3 settembre 1827 a Firenze con un ingobbito Giacomo Leopardi (Niccolo’ Tommaseo nelle sue epistole lo chiamava amabilmente: ”quel maledetto Gobbo”) ad accogliere un balbuziente Alessandro Manzoni, ospite del Gabinetto letterario di Gian Pietro Vieusseux.

E che dire delle serate al Café Louvre di Praga nel 1912? Il locale era frequentato da scrittori e scienziati, tra questi Franz Kafka, che proprio quell’anno scriverà La metamorfosi e il romanzo, rimasto incompiuto, Amerika; e Albert Einstein, che insegnava all’Università e stava lavorando alla Teoria della Relatività Generale, pubblicata poi nel 1915.

Insomma, per concludere. Brokken ci illustra le magie e i bagliori di San Pietroburgo, i fuochi d’artificio del ricordo, immortalati per vincere e rischiarare la buia notte dell’oblio, scattando queste fugaci istantanee con una vecchia macchina fotografica munita di uno di quei cubici flash al magnesio, che qualcuno ancora si ricorderà.

Jan Brokken
Bagliori a San Pietroburgo
De gloed van Sint-Petersburg
Traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo
Iperborea, 2017

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