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La sedia – Sibyl von der Schulenburg

La sedia

La costa degli Etruschi offre il suo lato migliore la mattina presto, quando i turisti stanno ancora girando il cucchiaino nel cappuccino e sul bagnasciuga s’incontrano solo alcuni salutisti a passeggio.

Catherine non passeggiava mai sulla sabbia umida. Arrivava alle prime luci dell’alba, apriva il lucchetto della catena e liberava la sedia di plastica dal vecchio tronco del pino marittimo più vicino al mare. I suoi movimenti erano lenti, tipici della persona anziana, limitati dall’artrosi e dalle ampie tuniche che vestiva in ogni stagione.

Era difficile attribuire un’età a quella figura minuta che trascinava la sedia verso il mare. La destra teneva salda la spalliera e, la sinistra, il manico di un secchiello di plastica dal quale spuntavano paletta e rastrello colorati. Le falde di un ampio cappello di paglia legato sotto il mento, svolazzavano alla brezza marina. La donna posizionava la sedia vicino all’acqua, deponeva il secchiello a lato e si sedeva a guardare il mare.

I turisti che tornavano ogni anno sulla stessa spiaggia toscana, la consideravano ormai parte del paesaggio; quelli occasionali si fermavano un attimo, guardavano il secchiello e poi con gli occhi cercavano qualcosa o qualcuno lì attorno. Ma non c’erano mai bambini nel raggio di qualche metro attorno a quella donna ingobbita sulla sedia che ogni tanto passava le mani sui braccioli.

La sera, quando anche gli ultimi bagnanti se ne andavano, Catherine si torceva le mani e le labbra mormoravano qualche parola senza voce. Strofinava ancora una volta i braccioli di plastica, poi si alzava a fatica, raccoglieva il secchiello, afferrava la spalliera e trascinava la sedia fino al pino.
Avevo chiesto al barista sulla spiaggia, chi fosse quella donna. Lui fece spallucce e rispose che oltre al nome non sapeva molto; era una francese strana, probabilmente malata, sicuramente una che non dava fastidio. L’uomo fece circolare il dito all’altezza della tempia. “È svitata, dicono che sia venuta in vacanza una decina d’anni fa… poi deve aver perso qualcuno dei suoi in mare.”

M’incuriosiva quella donna, ma non volli mai disturbare il suo gesto meditativo di guardare la linea dell’orizzonte o qualche altro punto nell’acqua. Sicché, le poche volte che la vidi, aggirai rapida la sedia e procedetti nella mia passeggiata mattutina con la Canon al collo, in cerca di qualche scatto interessante.

Una fredda mattina di dicembre mi vide di nuovo sulla spiaggia a caccia di fotografie particolari. L’assenza di turisti aveva restituito il luogo alla natura: alghe sputate dal mare si ammassavano in mucchietti sinuosi davanti alle strutture balnearie chiuse e rami secchi levigati dalle onde s’impilavano in artistici monumenti inneggianti alla liberazione dall’uomo.

All’inizio della spiaggia pubblica vidi una figura china accanto a un pino marittimo. Riconobbi la vecchia francese e mi avvicinai. La donna cercava di liberare la sedia scuotendo e strattonando la catena.

“Posso aiutarla?”, chiesi.
Lei si girò guardandomi con gli occhi grigi pieni di lacrime. “Non si apre. Je’n sais pas purquoi…

Appoggiai la macchina fotografica accanto al secchiello della donna e mi chinai sul lucchetto dal quale spuntava la chiave. Provai a girarla ma non si muoveva.

“È il freddo credo”, dissi stringendo le mani attorno al pezzo di ferro arrugginito. “Proviamo così.”

Catherine si lasciò cadere sulla sedia. “Merci.”, disse con voce rotta. “Grazie signora, non so cosa fare.”

Sorrisi. “Ma perché lega questa vecchia sedia? Non credo che qualcuno voglia portarla via.”

“Il mare… il mare porta via tutto.”

Annuii ricordando quello che mi aveva detto il barista. “È vero, qualche volta lo fa.” Riprovai a girare la chiave e la serratura cedette con uno schiocco. “Ecco, però sarebbe meglio farlo ingrassare un po’.”

La vecchia mi regalò un largo sorriso sdentato. “Merci.” Liberò la sedia dalla catena e la mano nodosa raccolse il secchiello dai colori sbiaditi.

“L’aiuto.”, dissi afferrando la Canon. Trasportai la vecchia sedia incrostata fin sul confine della battigia.

Catherine mi seguì curva e ansimante. Sistemò la sedia un po’ più lontano dall’acqua e si sedette, posando a terra i giocattoli. La tesa del cappello di paglia consunta era piegata indietro dal vento che veniva dal mare.

La donna accennò un debole sorriso guardando l’orizzonte. “Forse oggi arriva.”, mormorò.

“Aspetta qualcuno?”

“Prego sempre che arrivi e se non viene… prego per il giorno dopo.”

Puntai l’obiettivo sul secchiello e lo zoom rilevò le crepe nella plastica vecchia. All’interno c’erano un paio di formine, la paletta e il rastrellino.

Lo scatto dell’otturatore fece girare la testa alla donna. “Le piacciono i giocattoli di Sammy?”

“Chi è Sammy?”

“Mio nipote, un bambino tenero e affettuoso. Ha solo due anni e mi ha affidato il suo secchiello. Néné, mi ha detto, tout d’suite.”

Sentii stringersi la bocca dello stomaco e abbassai la macchina.
Il volto rugoso della francese si rattristò. “Ha detto che torna subito.”

Osservai per qualche secondo l’increspatura dell’acqua prima di chiedere sottovoce: “Il mare?”

Lei annuì. “Oui, Sammy è entrato e non è ancora uscito.”

“Mi dispiace.”, sussurrai. “Dev’essere stato un dolore immenso.”

“Il mare porta via, ma non risputa mai niente di mio.”, disse Catherine tornando a guardare l’acqua. “Neanche Pierre.”

L’onda che sopraggiunse lambì le scarpe di tela della francese. Lei si alzò, spostò indietro di un passo la sedia e sistemò il secchiello. “Non è ancora arrivato, devo aspettare.”

“Ma l’ha detto anche lei… il mare non sputa… insomma…”

“Oh lo so, e lo sa anche Pierre. È andato a cercare Sammy e io aspetto.”

Catherine si torse le mani. “Ti prego… ti prego… mi mancano tanto.”
“Pierre?”, chiesi deglutendo.

“Mio marito. Lui è coraggioso e io lo amo tanto. È corso dietro a Sammy tra le onde, ma io… io no, ho avuto paura. Però aspetto.” La vecchia strofinò piano i braccioli biancheggianti.

Allungai la mano e accarezzai piano la spalla della donna attraverso il ruvido tessuto di lana. “Non torneranno, è inutile aspettare.”

“Oh no, non sono pazza”, rispose lei tirando gli angoli della bocca, “lo so che da lì non usciranno. Io aspetto il coraggio di seguirli e portare il secchiello a Sammy.”

Non dissi altro. Lasciai la donna alla sua attesa e proseguii il mio cammino.

L’ultimo giorno dell’anno tornai sulla spiaggia, sperando d’incontrare Catherine per augurarle un po’ di felicità nell’anno nuovo. Vidi da lontano qualcosa sul tratto di battigia che lei occupava di solito.

Mi avvicinai e inquadrai la sedia rimasta sola sul bagnasciuga col mare che giocava a prenderla e lasciarla. Coricata sullo schienale, era semisommersa dalla sabbia, tutta incrostata salvo i braccioli.

La francese non c’era. Mancavano anche il secchiello, la paletta, il rastrello e le formine.

Buon Anno Catherine.

Questo racconto è stato scritto da Sibyl von der Schulenburg e pubblicato per la prima volta il 1° gennaio 2015 da Piego di Libri.

Sibyl von der Schulenburg è un’autrice italiana ormai conosciuta ai lettori che amano i romanzi con le trame dense. La sua scrittura è caratterizzata da fluidità, ritmo serrato, rinuncia a fronzoli linguistici e sapiente utilizzo del potere evocativo delle parole. Oltre a saggi e romanzi storici, ha scritto gli psico-romanzi “Ti guardo”, “I cavalli soffrono in silenzio” e “La porta dei morti”. Li puoi trovare sul sito della casa editrice Il Prato.

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