9 agosto 1916: a trentatré anni non ancora compiuti, Guido Gozzano, poeta cinico e delicato, muore nella sua Torino. Sono passati cent’anni da allora, ma non sono state dimenticate le sue rime: rime agili e leggere, che nell’ironia e nella cantabilità dei versi sdrammatizzano un sentimento perpetuo di vanità e di morte, rifiutando la poesia solenne del passato per ricercarla nelle semplici cose di tutti i giorni:
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici…
Le pagine de I colloqui sono popolate da personaggi comuni, ma dotati ciascuno di un proprio personalissimo colore. C’è la signorina Felicita, «quasi brutta» e «priva di lusinga», ma con la sua «faccia buona e casalinga» e una «bocca vermiglia», che rasserena il poeta. C’è Totò Merùmeni, maschera di Gozzano, che vive nel «silenzio di chiostro e di caserma» della sua «villa triste», compagni «una ghiandaia roca, / un micio, una bertuccia che ha nome Makakita». C’è la Cocotte, la «cattiva signorina», ripescata dai ricordi di Guido fanciullo e ora invocata con intensità e nostalgia. C’è Graziella, «forte bella vivace e bruna», che è immagine della giovinezza mai vissuta dal poeta, della «via tutta fiorita di gioie mai mietute», e c’è, di contro, la vecchia Signora, «da troppo tempo bella, non più bella tra poco».
Sullo sfondo, Torino si staglia grigia e malinconica, simile a «una stampa antica bavarese»: è la Torino delle caffetterie e dei «tigli neri», città borghese e crepuscolare, delle «buone cose di pessimo gusto», «favorevole ai piaceri». È il nido «sconsolato e brullo» cui il poeta sempre ritorna volentieri, come «Giacomo fanciullo» nel «natio borgo selvaggio»:
Un po’ vecchiotta, provinciale, fresca
tuttavia d’un tal garbo parigino,
in te ritrovo me stesso bambino,
ritrovo la mia grazia fanciullesca
e mi sei cara come la fantesca
che m’ha veduto nascere, o Torino!
La poesia di Gozzano, che pure si nutre di passato e stagioni sfiorite, di decadenza e sogno, conserva a distanza di un secolo modernità e freschezza, e riconferma anche oggi il giudizio che Montale diede di lui, quando lo definì «il più artista dei poeti del suo tempo».
Per ricordare il poeta di Agliè a cent’anni dalla sua morte, Einaudi ripropone nella collana “bianca” l’edizione delle poesie curata nel 1973 da Edoardo Sanguineti (G. Gozzano, Le poesie, a c. di E. Sanguineti, Einaudi, Torino 2016). In attesa di sfogliarla, noi rileggeremo qui gli ultimi versi de I colloqui, un presago addio al mondo, amaro e scherzoso insieme:
L’immagine di me voglio che sia
sempre ventenne, come in un ritratto;
amici miei, non mi vedrete in via,
curvo dagli anni, tremulo e disfatto!
Col mio silenzio resterò l’amico
che vi fu caro, un poco mentecatto;
il fanciullo sarò tenero e antico
che sospirava al raggio delle stelle,
che meditava Arturo e Federico,
ma lasciava la pagina ribelle
per seppellir le rondini insepolte,
per dare un’erba alle zampine delle
disperate cetonie capovolte…
Autore: Guido Gozzano
Titolo: Le poesie
A cura di: Edoardo Sanguineti
Editore: Einaudi
Anno: 2016