7 gennaio 2015. Alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo due uomini dichiaratisi affiliati ad Al Qaeda, mascherati e armati di kalašnikov, aprono il fuoco e uccidono 12 uomini, tra i quali anche Stéphan Charbonnier, il direttore del giornale.
8 gennaio 2015. Amedy Coulibaly, affiliato dell’ISIS, uccide una poliziotta francese trentaduenne a Montrouge, a sud di Parigi. L’attentatore viene successivamente collegato ai fratelli Kouachi, responsabili della strage a Charlie Hebdo.
La campagna di solidarietà “Je Suis Charlie” per difendere la libertà di espressione diventa virale. Viene supportata dai giornalisti di tutto il mondo, da cittadini francesi e stranieri. Le immagini di matite spezzate circolano su Facebook, in 45 mila hanno rilanciato su Twitter l’hashtag #JeSuisCharlie nelle due ore successive all’accaduto. Nella prima pagina di repubblica.it in questo momento scrivono: “Parigi, due milioni in marcia contro il terrore. 45 grandi del mondo in prima fila”.
Non mancano le critiche: “Je ne suis pas Charlie” dichiara il leader del partito di estrema destra Front National, da sempre contrario al tipo di satira della rivista. “Io non sono Charlie” é anche il titolo di un articolo pubblicato da La Stampa il 9 gennaio, nel quale si esprime solidarietà nei confronti degli uccisi, ma si invita anche a riflettere sui rischi che porta l’identificazione di ogni individuo nelle vittime del massacro attraverso lo slogan “Je Suis Charlie”. “Il fondamento della libertà, quella di essere e quella di esprimersi, sta nel riconoscere che il mondo non é tutto uguale e noi nemmeno, anzi. L’uguaglianza non é un valore, lo é invece la parità: di essere e di esprimersi nella diversità che ci caratterizza in quanto individui. É proprio il fanatismo che propugna invece l’eguaglianza assoluta”, scrive Elena Loewenthal sempre su La Stampa.
Tornando alla libertà di espressione, un articolo di Tom Holland dell’8 gennaio per la BBC ripercorre quelle che sono le origini della battaglia per la libertà d’espressione.
L’incipit dell’articolo di Holland cita giustamente Voltaire. “La superstizione manda l’intero mondo al rogo”, aveva dichiarato nella seconda metà del ‘700 il filosofo dal suo nascondiglio in Svizzera, quando gli era stato comunicato che il cristiano francese Lefebvre, esponente della nobiltà, era stato condannato a morte perché accusato di blasfemia e che tra i libri bruciati sul rogo il giorno della sua condanna c’era anche il Dizionario Filosofico.
“I concetti di libertà d’espressione e tolleranza per i quali Voltaire si é battuto nel corso della sua esistenza sono oggi celebrati dagli europei come le conquiste più importanti mai ottenute dalla civiltà”, scrive Tom Holland.
È proprio a Voltaire che Philippe Val, giornalista di Charlie Hebdo, ha dedicato il titolo del suo libro, pubblicato nel 2008, nel quale rivendica il diritto dei vignettisti di prendersi gioco dei taboo della religione. Il libro si intitola: “Voltaire, ritorna. Sono diventati matti”.
Scrive Holland: “L’Islam, a differenza del Cattolicesimo, ha ereditato dell’ebraismo una profonda disapprovazione per le arti figurative. La religione islamica celebra Maometto, il profeta che ha ricevuto da Dio un messaggio di fede destinato a tutti gli uomini e che lui ha poi fatto riprodurre in forma scritta nel Corano. Gli insulti mossi nei confronti di Maometto sono ritenuti dai giudici islamici atti di miscredenza e la miscredenza é un crimine che va punito con l’inferno”.
“Ecrasez l’infâme” é un famosa espressione che usò Voltaire rivolgendosi ai suoi sostenitori. Che cosa connota, peró, l’infamia? Il giornalista Holland scrive che per i vignettisti di Charlie Hebdo infamia é sinonimo di presunzione e pretesa di autorità sia in politica che in religione, e di certo l’uso di esprimerlo attraverso una satira feroce è una loro scelta dettata, appunto, dalla libertá di espressione.
Tornando al filosofo, nonché scrittore di satira, storico, drammaturgo e poeta dell’Illuminismo, Voltaire un giorno disse a uno dei suoi corrispondenti: “Detesto quello che scrivi, ma darei la vita per far sì che tu possa continuare a scriverlo”. Avete letto bene. Secondo quanto scritto nel Bartlett’s Familiar Quotations (una collana di volumi che contengono le citazioni degli autori più influenti), la famosa frase pronunciata da Voltaire “Non condivido quello che pensi, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo” in realtà non é altro che il frutto di un’interpretazione elaborata da uno studioso di un’altra frase che scrisse il filosofo, che é quella da me riportata all’inizio del paragrafo. Il Christian Science Monitor di Boston, nell’articolo dove riporta l’informazione, ne fa un dramma, a me le due frasi non sembrano molto diverse.
Quello che a mio avviso risulta rilevante é quello che ha scritto Enrico Caria per il Fatto Quotidiano in un articolo di ieri in relazione proprio a questa frase di Voltaire: “Allora invece di pubblicare tutte ‘ste vignette con matite spezzate, sparate, morte, portate in spalla, seppellite, risorte, ascese al cielo e sedute alla destra del padre, non era più giusto stampare direttamente quelle sporche, brutte e cattive di Charlie?”.
L’argomento é senz’altro controverso. Ai fatti di cronaca, lineari, chiari e trasparenti, seguono sempre opinioni diverse, incoerenti e discordanti. É la bellezza della libertà di espressione.
Per chi avesse ancora le idee confuse sull’argomento, consiglio caldamente la lettura delle già citate “Lettere Filosofiche”, del “Dizionario Filosofico” e del Candido; tutte opere scritte dal grande François-Marie Arouet, al secolo Voltaire.