Nancy Andreasen, neuroscienziata e neuropsichiatra del Nebraska, nel 2006 pubblica “The Creative Brain: The Science of Genius” (Dana Pr), un libro frutto di trent’anni di ricerche sul rapporto tra neuroscienza, psicologia e letteratura (fonte: Brain Pickings).
Andreasen studia in particolare i sintomi e la manifestazione di malattie mentali nei grandi artisti e come queste abbiano inciso sulla loro creatività. Nello specifico si chiede se questi disturbi psichici abbiano alimentato il loro genio creativo o influito negativamente sulla loro produzione artistica.
Da Shakespeare a Mozart a Van Gogh, sono molti gli artisti che la Andreasen prende in esame. Virginia Woolf, a mio parere, rappresenta uno dei casi più interessanti.
Virginia Woolf (1882-1941)
La sua aspirazione all’assoluto e all’analisi di se stessa e delle persone che le stavano attorno l’avevano portata, soprattutto negli anni del Bloomsbury Group, a sviluppare un atteggiamento di ribellione e di insoddisfazione che poi in età adulta culminò nella malattia e la portò al suicidio.
Tutti noi la conosciamo per il “flusso di coscienza”, aspetto chiave del Modernismo letterario, e associamo questo concetto a uno dei suoi romanzi più celebri: “La Signora Dalloway”.
Affermazione giusta ma incompleta. Il romanzo è anche la chiave del bipolarismo che affliggeva Virginia, la quale si servì della scrittura per dare un senso a quello che le stava succedendo. I pensieri tormentati dai sensi di colpa di Clarissa e Septimus, infatti, non sono altro che due sfumature di una stessa voce interiore e altalenante, a volte conscia e a volte inconscia, della scrittrice stessa (Journal of Novel Applied Science).
Ritornando ad Andreasen, si può definire la malattia uno strumento fecondo nei confronti della scrittura?
Le conclusioni della neuroscienziata non sono quelle che ci si potrebbe aspettare: Andreasen sostiene che la grandezza di questi artisti non è data dall’essere stati affetti da qualsivoglia patologia, quanto nell’aver partorito opere magnifiche nonostante i loro disturbi.
Morale della favola, per diventare un grande scrittore, pittore o compositore non bisogna per forza soffrire di depressione o essere affetti da bipolarismo. Andreasen spiega che questi sbalzi d’umore si manifestavano nei suoi pazienti letterati saltuariamente e spesso per brevi periodi. Nei periodi di eutimia gli scrittori erano in grado di raccontare con distacco e tranquillità quello che provavano durante quei periodi di “buio” e come ne venisse condizionata in negativo la loro creatività.
Anche Virginia Woolf non era in grado di produrre durante una crisi depressiva. Al termine della stessa però, si trovava nuovamente piena di energie, come se quel disordine mentale le fosse essenziale per scrivere.
C’è un perché, allora, se i più grandi geni difficilmente riuscivano a mantenere un equilibrio psicofisico?
Di seguito, la mia traduzione libera della riposta che dà Nancy Andreasen in “The Creative Brain: The Science of Genius”. Un pezzo che spiega e fa anche riflettere su cosa significhi essere creativi:
“I creativi sono di solito più vulnerabili perché aperti a nuove esperienze, più tolleranti nei confronti dell’ambiguità dell’essere umano e con un approccio alla vita e al mondo libero da preconcetti. Questa elasticità permette loro di vedere le cose da una prospettiva sempre diversa; questo sta alla base della creatività.
L’io interiore del creativo è quindi più complesso, ambiguo e ricco di sfumature. È un mondo fatto di mille domande e poche semplici risposte. Mentre i meno creativi di fronte a situazioni critiche sentono il bisogno di reagire come se obbedissero agli ordini di qualche figura autoritaria – genitori, insegnanti, preti, ecc. – il creativo vive in un mondo più fluido.
Accadrà un giorno che i creativi subiranno critiche o rifiuti per aver posto troppe domande o essersi comportati in maniera non convenzionale. Solo questo li porterà a sviluppare una forma di depressione o alienazione sociale”.