Breve storia portatile della morte del romanzo ad uso dei curiosi
A proposito dell’edizione di “S” ovvero La Nave di Teseo di V.M. Straka, libro ideato da J.J. Abrams, si è tornati a parlare, a torto o a ragione, della morte del romanzo, così come accadde dopo l’uscita di Finnegans wake. Un modo come un altro per fare il punto della situazione riguardo a un genere multiforme, in continua evoluzione.
Ma questo “S” ci chiediamo allora, è il capostipite, il testimone base, l’archetipo, l’inizio di un nuovo genere o la fine del romanzo che muore per sfinimento, sfibrato, svuotato di tutte le sue possibilità, non già con uno schianto ma con un piagnisteo?
La prima volta che in epoca moderna si parla di morte del romanzo è forse con la letteratura fattografica. Movimento che ha coinvolto personaggi del calibro di Vladimir Majakovskij, Viktor Sklovskij, Osip Brik. La novità del movimento fattografico (1927-1930) sta nel rifiuto della tradizione e nel tentativo di costruire una poetica rivoluzionaria adatta al nuovo Stato socialista: da qui la necessità di ricorrere al realismo.
«Ora che il sogno è diventato realtà, non c’è più bisogno di rifugiarsi nel mondo della fiction: basta volgere l’occhio al quotidiano».
Il romanzicidio è un passaggio necessario per lasciare spazio a generi letterari più aderenti alla realtà, quali la biografia, il reportage, il diario.
Altri decretano la morte del romanzo dopo Finnegans wake di Joyce, dopo cui nessun altro romanzo è più possibile e tutti i successivi sono solo zombie che sopravvivono, privi della linfa vitale, nel mondo letterario. In pratica il romanzo come forma letteraria sarebbe dovuto morire con Hemingway e Fitzgerald e poi sepolto per sempre con Finnegans Wake. Invece si è trascinato per un altro secolo. I bei romanzi usciti dopo l’epopea di James Joyce, altro non sono che zombi, esempi di una forma d’arte non-morta che rifiuta d’estinguersi.
Ma poi se ne parla ancora alla fine del ‘900, con il gruppo ‘63, che al contrario dei fattografici decreta la fine del romanzo realista per quello sperimentale, che romanzo non è più. Si trattava della presa d’atto finale della morte del romanzo come opera d’arte, almeno davanti allo spettacolo sconsolante del mercato editoriale contemporaneo e delle classifiche. I giovani del Gruppo ‘63, riuniti a Palermo, nominavano autori del nouveau roman (movimento che prova, con ulteriori sperimentazioni che sanno di defibrillazione, di resuscitare un genere ritenuto morto) in contrapposizione agli italiani Bassani, Cassola e Moravia, con sospetti e insinuazioni anche sull’establishment letterario d’opposizione, alla ricerca di alcune definizioni radicalmente nuove ai vecchissimi problemi della narrazione romanzesca: il realismo, il rapporto soggetto-mondo, la tecnica narrativa.
Insomma quanto durerà ancora il romanzo? Come sottolinea Tommaso Pincio, nel “Saggista ingegnoso”, nel tardo secolo scorso, la morte del romanzo era tra i temi più in voga, se non il tema per eccellenza.
«La scomparsa che allora si paventava o auspicava era tuttavia di gran lunga più teorica che effettiva. Che molte sue giunture sembrassero (e fossero) arrugginite è naturalmente innegabile, come era acclarata la difficoltà nel tenere il passo di nuovi e più efficaci mezzi di rappresentazione e intrattenimento. Volendo tentare un paragone, il romanzo si trovava nella condizione di un individuo che abbia imboccato da tempo il viale della mezza età, una fase dell’esistere in cui la morte appare per forza di cose più vera e prossima, ma proprio per questo comporta un attaccamento alla vita più pervicace di quello che si conosce da giovani. Il romanzo era dato per morto ma non ci teneva affatto a morire, e tale era il suo imbolsito vigore che, nell’accezione comune del tardo Novecento, lo scrittore era in sostanza il romanziere».
Voi che ne dite?