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Lo stereoscopio dei solitari – J. Rodolfo Wilcock

Lo stereoscopio dei solitari

Lo confesso. Anch’io ho un debole per le enumerazioni (sono il solo?). Per le classifiche e per le classificazioni. Vengo talvolta travolto dalla Vertigine della lista. Ecco che allora devo per forza catalogare i migliori racconti di sempre. E spesso non sono sempre gli stessi.

Per Nabokov per esempio? Una questione d’onore o Un colpo d’ala? Borges? Funes o L’Aleph? E Pierre Menard, autore del Chisciotte dove lo lasciamo? Da lì è fuoriuscita tutta un’altra letteratura, ne ha cambiato letteralmente la storia.

Bukowski? Sei pollici o Tre polli? Cortázar? Bestiario o Un fiore giallo? A Michelangelo Antonioni per esempio era piaciuto Le bave del diavolo e da quello trasse Blow-up. Hemingway? Forse Colline come elefanti bianchi o Un posto pulito, illuminato bene? (o l’inarrivabile For sale: Baby shoes. Never worn. Che non è il titolo, è un racconto di sei parole! Provate a fare di meglio, forse dopo qualche Bloody Mary. Solo Monterroso ha fatto di meglio: Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì).

Per altri è più facile, fors’anche perché la loro produzione minore, in quantità, ma non inferiore in qualità. Allen: Il caso Kugelmass. Arbasino: Distesa estate. Rulfo: Anacleto Morones. Del Giudice: L’orecchio assoluto. Manganelli? Un amore impossibile o Discorso sulla difficoltà di comunicare con i morti? Felisberto Hernández: impossibile decidere qual è il migliore. Così per Roberto Bolaño. Così per altri.

Carver? Di cosa parliamo quando parliamo di Carver? (personalmente Il treno è il suo capolavoro, inarrivabile. Senza preamboli, senza un finale. Rende i lettori simili a quei viaggiatori che nel racconto vedono un vecchio salire scalzo sul treno. Perché? Rimaniamo a fantasticare e a rimuginare semplici illazioni. Così in letteratura, come nella vita vera…).

E così, per queste vie traverse, svicolando nelle innumerevoli scorciatoie della letteratura, ci avviciniamo di soppiatto anche a J. Rodolfo Wilcock. Personaggio inafferrabile, affascinante. Uno che bisogna prendere di sorpresa alle spalle. Uno che ha fatto il salto mortale e ha cambiato lingua, come Conrad, come Nabokov, come Beckett.

Uno che forse il suo capolavoro è La sinagoga degli iconoclasti. Ma questo Stereoscopio, pazienti lettori, è semplicemente formidabile. Lui diceva che fosse in realtà un romanzo con settanta personaggi principali, che non si incontrano mai! Geniale.

Mi fa pensare ovviamente a quel libriccino sterminato, prodigio della scienza contemporanea alleata alla retorica, contenente cento piccoli romanzi fiume: Centuria, opera di colui che non a caso viene citato due volte, e non in tribunale. E in certi tratti e ritratti Wilcock ricorda l’acume e la prosopopea dell’esimio professore.

Romanzo quindi, come diceva l’autore, ma libro di racconti in realtà. Racconti di due, tre pagine al massimo. Per cui si riapre l’interrogativo ameno e l’ansia classificatoria. Quale il migliore?

Il centauro? Un centauro d’inverno è troppo esposto al freddo. Indossa un colbacco grigio di pelle di pecora. Sulla maglietta della salute porta un maglione e sul maglione una giacca imbottita; più giù è nudo e il vento gli passa tra le gambe, o meglio detto tra le zampe, e gli scompiglia la coda. Altri inverni ha fatto la prova di girare col cappotto, ma la pancia gli rimaneva lo stesso scoperta; la pancia o il petto, perché non è chiaro dove cominci la pancia o finisca il petto. Non potendo abbottonarsi il cappotto fin giù in fondo, ha provato a infilarsi sotto il maglione una specie di gonnellino di lana scozzese, ma con quella specie di grembiule si sentiva ridicolo, poco maschile, non che frequenti altri centauri, è una razza poco socievole, e peraltro pressoché estinta. Per altro ancora passa le sue giornate a dipingere nella stalla, per lo più quadri tra l’onirico e l’astratto, alla Alberto Savinio, con molti cavalli mostruosi, minacciosi, in odio a quella parte di sé con la quale è costretto a convivere.

O invece è migliore La sirena? Altre sirene abitano in graziose grotte sottomarine, lei invece è la sola sirena di un fiume melmoso, largo, torbido e lento, e alloggia sotto il relitto nerastro di una barca affondata, così la sirena è sempre sporca, scarmigliata. I bambini del luogo le gettano cocci, gli uomini le propongono sconcezze, e una domenica è venuto un prete con tre donne vestite di nero a esorcizzarla, sventolando una croce. Perciò ha deciso di non farsi più vedere in giro, nessuno si occupa della sirena solitaria, tranne un impiegato del comune che periodicamente si presenta a reclamare il versamento di certe imposte pregresse. Ecco. Questa è la vita della sirena nel fiume.

Comunque avrete capito. In molti di questi piccoli testi, o testicoli (per dirla alla Queneau), avviene la magia letteraria di rivedere personaggi mitologici e arcaici, veri miti letterari, riportati in un ambito quotidiano, contemporaneo, spesso alle prese con problemi comuni, banali.

Come quando Medusa spende somme favolose dal parrucchiere, per farsi spettinare le vipere: vipere capricciose, sempre sveglie, che non la lasciano dormire, si dimenano e si contorcono, la mordono sul collo e le più lunghe sui seni. Così.

Comunque sia il racconto migliore per me è I cani da esca (e non accetto smentite, né repliche: le lettere di reclamo saranno cestinate, i commenti contrari oscurati seduta stante).

Eccovene la sinossi: Corfo, protagonista della storia, ha problemi con le tre dimensioni, perché spesso si ritrova accidentalmente in una quarta, scivolando in universi poliedrici dove i rapporti spaziali e temporali sono assolutamente improbabili e cangianti. Questo gli crea non pochi problemi. Pensa di entrare in una stanza e invece si ritrova su un autobus o su otto aerei contemporaneamente diretti in Islanda, da dove poi deve ritornare a casa attraverso mille peripezie. Insomma un incubo. Infatti non si azzarda più ad uscire dal proprio appartamento, ma gli sbalzi dimensionali continuano e ogni soglia può essere un buco spazio-temporale.

Ecco che intervengono i cani da esca: Corfo ne ha presi cinque e prima di entrare in una stanza manda avanti un cane. Uno è scomparso per due giorni, un altro s’è perso chissà dove per sempre, un altro è entrato in bagno e un attimo dopo la portinaia lo riportava dal cortile. La cosa strana è che questo cane aveva un occhio mezzo bianco a destra, mentre quando è riapparso l’occhio appannato ce l’aveva a sinistra!

Un ultimo appunto: lo stile di Wilcock è puramente descrittivo (in questo modo rende credibile l’incredibile), i suoi non sono apologhi, né racconti edificanti, tantomeno moralità leggendarie…

…forse solo al termine de Il riccio si lascia andare a una frase, in realtà due parole, di valore universale. Dove dice «schiavo come tutti del proprio mostro», (e forse in questo passo ci dice come leggere questo libro), per il resto è neutro, sibillino.

Ecco, signore e signori, questo è Juan Rodolfo Wilcock. Argentino come Borges e Cortázar.

(Per gli amanti del genere, io sono uno di quelli, non già appassionato ma ossessionato, questo volume contiene anche una robinsonnade, tanto ridicola quanto commovente, alla Wilcock per intenderci).

Autore: J. Rodolfo Wilcock
Titolo: Lo stereoscopio dei solitari
Editore: Adelphi
Anno: 1989

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