Di Laura Lauzzana, incontrata alla Fiera delle Parole lo scorso ottobre, mi è rimasta impressa una frase particolare pronunciata in occasione della presentazione del suo ultimo libro (Tu mi guardi – Edizioni Anordest). Incalzata dal moderatore a parlare di sé, a svelare chi c’è veramente dietro alla pagina scritta, Laura, quasi schernendosi aveva affermato: “scrivo per non parlare”. In effetti, sono proprio i suoi libri e i suoi lavori a parlare per lei. Scrittrice, giornalista, ricercatrice, Laura Lauzzana è una donna vitale e al tempo stesso pacata. Mostra sia la sicurezza che viene (anche) dalle esperienze vissute, che l’umiltà di chi non vuole smettere di conoscere e comprendere il mondo. Per chi abita a Padova e dintorni ricordiamo che il suo romanzo sarà presentato da Gabriella Imperatori proprio a Padova il prossimo 7 Marzo nell’ambito degli incontri “Il libro nel bicchiere”.
Con il suo nuovo romanzo, Tu mi guardi (Edizioni Anordest) torna alla letteratura dopo alcuni anni. Si sente più studiosa o scrittrice?
Nella mia vita la tensione alla scrittura è stata una costante da quando ero adolescente. Potrei dire che ogni lettura ed esperienza sia stata vissuta nell’ottica, a volte anche inconscia, di scriverne in un secondo momento. Direi quindi che è stata un’attitudine esistenziale. Si è trattato anche di un lungo percorso di assimilazione, disseminato di taccuini di appunti, e supportato da studi umanistici e sociali. Ma ho sempre saputo che ciò che facevo, anche da studiosa, era volto alla letteratura. Tuttavia, solo molto tardi mi sono sentita pronta per una scrittura di tipo professionale, ossia pronta alla pubblicazione.
Quanto c’è dei suoi studi in filosofia e antropologia nei suoi romanzi? Sono stati fonti utili di ispirazione?
Guardando alle mie esperienze passate mi sembra di rintracciare un filo rosso nel desiderio testardo di capire la realtà del mondo. Di qui l’interesse per la filosofia e antropologia, con anni di studio anche all’estero, che ho visto come tappe per una scrittura di approfondimento nel pensiero innanzitutto. Così, pur avendo avuto una passione precoce per la letteratura (il mio primo libro fu Cime Tempestose a 12 anni) non scelsi Lettere all’università, bensì Filosofia. Antropologia e filosofia mi hanno formata, e quindi confluiscono nella scrittura, consapevole della complessità del reale e delle prospettive diverse, ma quando scrivo devo cercare di allontanarmi da quell’impostazione. Per me la letteratura significa farsi vuoto, accogliere intuizioni, illuminazioni, non risposte. La fonte d’ispirazione rimane la vita, magari non un fatto ma un’atmosfera, e per la forma e il tono della scrittura finora mi sono ispirata direttamente alla letteratura.
Leggendo le note biografiche che la riguardano, non si può fare a meno di notare che nel corso della sua vita ha avuto modo di viaggiare molto. Cosa pensa del viaggio e che relazione ha per lei con la scrittura?
Io provengo da un paese piccolo che d’estate si riempiva di turisti anche stranieri. Ne ho sempre subito un fascino, sin da piccola, e, appena ho potuto, con i miei mezzi mi sono rivolta al viaggio come esperienza di vita e apprendimento. Il viaggio realizzato con questo spirito ti costringe inevitabilmente a metterti in discussione, a provare i tuoi limiti e a confrontarti con realtà altre. Nell’alterità antropologica, tuttavia, la letteratura trova anche l’universale umano, i fondamenti.
Prima di Tu mi guardi ha pubblicato nel 2009 Il resto del giorno (Aliberti). Nel primo romanzo, la protagonista è una giovane donna, nel secondo un’adolescente. In entrambi i romanzi c’è una protagonista femminile. Caso o scelta voluta?
È stato un caso strano, perché in realtà il secondo romanzo l’avevo coltivato da anni dentro di me e pensavo sinceramente che sarebbe stato il primo. Quando invece la gravidanza mi ha finalmente consentito un periodo di stasi dopo anni errabondi, mi ritrovai di getto a scrivere quello che poi ho intitolato Il resto del giorno. È stata un’urgenza che si è risolta infatti in un tempo brevissimo di scrittura, pochi mesi. I due libri riguardano entrambi una figura femminile come protagonista, e non nego che ci siano alcuni elementi autobiografici.
Venendo a Tu mi guardi, di questo libro mi incuriosiscono molte cose: lo scenario (la Padova di metà anni Novanta fucina culturale delle autonomie), le tematiche, ancora così attuali, e lo stesso titolo. Può dirci qual è per lei il nodo essenziale del romanzo? Chi guarda chi?
Per scrivere Tu mi guardi mi sono rifatta a dei fogli che avevo scritto appunto a metà anni ‘90 e che riguardavano la mia vita giovanile di allora. Dopo quindici anni li ripresi in mano e ne salvai pochissimi; ma mi resi conto che quello che emergeva era un confronto generazionale tra chi aveva vissuto da giovane la Padova degli anni di piombo e chi, come me, stava vivendo gli anni del post-riflusso. Mentre scrivevo diventava anche evidente la mutazione antropologica che aveva interessato l’Italia, e non solo, dagli anni ‘60 in poi. Decisi di approfondire il tema della spettacolarizzazione che aveva invaso le nostre vite, con delle letture mirate, a cominciare da La società dello spettacolo di Guy Debord. Il titolo è stato deciso al termine del lavoro: il nucleo concettuale del romanzo riguardava l’inevitabilità del guardare ed essere guardati come esperienza fondante della vita umana. Come diceva Lacan, gli esseri umani sono degli esseri guardati nello spettacolo del mondo. Il problema è quando questa condizione intrinseca all’esistenza umana è veicolata dai media. Quindi il tema essenziale è il confronto tra il reale e la sua rappresentazione, e, in termini sociali, il rischio di una vita artificiale.
Lei ha vinto un premio per la proposta di un programma culturale sulle leggende metropolitane. C’è una dimensione “leggendaria” di Padova da rievocare? Cosa l’ha spinta ad ambientare il romanzo proprio in questa città?
Le leggende metropolitane che avevo trattato per una proposta di programma televisivo riguardavano genericamente la genesi urbana di fatti magari di cronaca poi favoleggiati nel tempo. La scelta invece di situare a Padova il romanzo è stata determinata, oltre dal fatto che l’ho conosciuta e vissuta direttamente per i miei studi universitari e lavoro, dall’importanza che la città ha ricoperto negli anni ‘70 come fucina di pensiero e azione politica nell’ambito dell’Autonomia. Padova fu davvero protagonista di movimento e lotte, a parole e purtroppo anche con armi, e ha funzionato da base logistica. Emergeva quindi nettamente il contrasto con la Padova borghese da me conosciuta a fine anni Ottanta e poi Novanta. Mi colpiva la nettezza della cesura che si era creata tra due generazioni e due fasi temporali così contigue.
Passando alla lettura, curiamo una rubrica in cui ogni mese andiamo a vedere i best sellers in Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, Brasile, Stati Uniti e sembra che ogni Paese abbia propri gusti letterari. Gli americani amano i thriller, i francesi le letture impegnate, i brasiliani quelle spirituali… è possibile una chiave di lettura antropologica?
In ogni nazione è possibile rintracciare un tratto dominante del carattere e della cultura, però rimane sempre generico. Tra l’altro io provengo da studi antropologici di matrice sociale, più che culturale, con una forte attenzione allo strutturalismo, quindi ne ho assorbito una cautela nel parlare genericamente di una cultura o tendenze.
Venendo a lei, cosa le piace leggere? Quali sono i suoi punti di riferimento letterari?
Io non cerco nella lettura un intrattenimento inteso come distrazione. Ho sempre cercato la letteratura con la L maiuscola. Ci sono certi libri talmente intensi che se li leggo a letto di sera mi diventa impossibile addormentarmi. E’ come se un mondo parallelo si aprisse a nuove ipotesi di esistenza, prima che di scrittura, a emozioni che a dismisura rompono con le abitudini che ci determinano. Tra questi segnalerei Bruno Schulz, con il suo Le botteghe color cannella. Mi sono formata con i classici europei e russi dell’800 e ‘900, e che rimangono per me fondamentali punti di riferimento (Balzac, Flaubert, Stendhal, Proust, Camus, Céline, Sartre, Dostoevskij, Gogol, Turgenev, Austen, Brontë, Woolf e altri). Mi è piaciuto anche leggere autori ebrei della diaspora. Recentemente mi sono rivolta alla letteratura americana contemporanea, (tra tutti ho preferito Kerouac, Saul Bellow, Don DeLillo, Oates). Mi piace la raffinatezza di Marguerite Yourcenar, Nina Berberova o Christa Wolf. Doris Lessing solo per i suoi libri autobiografici. Garcia Marquez, quasi visionario. Ma ce ne sono molti altri. Della letteratura italiana ho amato Goffredo Parise, Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Fenoglio, Vittorini, Gadda e La Capria.
E se dovesse eleggere “Il Libro di Sempre”, quale libro sceglierebbe? Perché?
Difficile dire, perché di libri fondamentali nella storia della letteratura, per me, ce ne sono stati tanti. Ma se dovessi scegliere direi Morte a credito di Céline. Riesce a dare, da una prospettiva personalissima, un affresco di quella Parigi dei primi del novecento in una maniera talmente vivida, come in uno stato di grazia.
Se dovesse consigliare un libro (a parte Tu mi guardi)? Perché?
Un libro andrebbe consigliato pensando sempre alla persona cui è destinato, ma così in generale direi appunto Céline, intramontabile, irriverente, vero.
Il suo libro sul comodino?
In questo momento ci sta Patrick Modiano, con il suo Via delle botteghe oscure.
Intervista realizzata in collaborazione con l’Associazione Culturale Cuore di Carta
1 commento
La profondità e la sua bravura , nell esporre , sono pari alla sua immensa umiltà umana come ricchezza intrinseca .