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Intervista a Irene Abigail Piccinini, traduttrice di Foer

Piccinini-Foer

È da oggi sugli scaffali delle librerie Eccomi (Guanda), il nuovo romanzo di Jonathan Safran Foer. In occasione dell’attesissima uscita, ecco che cosa ci racconta di Eccomi chi questo libro lo ha letto fino a farlo intimamente proprio: Irene Abigail Piccinini, la sua traduttrice, quella figura che il filologo e poeta Manara Valgimigli definì

«l’unico autentico lettore di un testo. Certo più di un critico, forse più dello stesso autore. Poiché di un testo il critico è solamente il corteggiatore volante, l’autore il padre e marito, mentre il traduttore ne è l’amante».

Che esperienza è stata tradurre Eccomi?

Impegnativa. Per uscire in contemporanea in Italia e negli Stati Uniti, abbiamo dovuto ingaggiare una vera e propria lotta contro il tempo. Dico abbiamo, perché per tradurre un libro di 600 pagine con i tempi ridotti che avevamo, è stato necessario un gran lavoro di squadra: ho lavorato a strettissimo contatto con la redattrice Guanda che ha fatto da editor al libro, Cinzia Cappelli, e con il revisore Massimiliano Galli. Molte cose le abbiamo discusse e ridiscusse prima di trovare una soluzione soddisfacente, da una serie di questioni generali a certe minuzie lessicali che ai più faranno sorridere, tipo: i tredicenni di oggi dicono ancora “sfigato”?

In un lavoro così complesso, oltretutto, poter mettere a disposizione della traduzione competenze diverse è stato particolarmente proficuo: per esempio, io sono più ferrata sulle questioni ebraiche, Cinzia sulle serie televisive (da cui Foer trae parecchi spunti, a cominciare dalla professione del protagonista Jacob, che è appunto un autore di serie tv), Max sulla cultura giovanile americana (film, canzoni), di cui il libro è ricchissimo.

In che rapporto si pone Eccomi rispetto alle precedenti pubblicazioni di Foer? Che posto crede che occupino i suoi libri nel panorama editoriale di oggi?

Direi che in questo libro Foer continua la sua esplorazione dell’identità ebraica, è questo il fil rouge della sua scrittura, però non me la sento di lanciarmi in un’analisi sul suo ruolo nel panorama editoriale di oggi, questo semmai sarebbe da chiedere al suo editore.

Come descriverebbe la scrittura di Foer, e qual è la maggiore difficoltà che ha riscontrato nella traduzione?

Foer ha una scrittura ricca di inventiva, di battute, giochi di parole, calembours, ammiccamenti e strizzatine d’occhio, di riferimenti e citazioni più o meno nascoste che richiedono ricerche e approfondimenti in campi diversissimi e una gran ginnastica mentale per la resa, oltre alla padronanza di molteplici registri linguistici: insomma, impegna il traduttore a tutto tondo.

Capire il senso di una battuta di dialogo, per dire, può non essere affatto scontato, e in un libro pieno di dialoghi serrati, oltretutto, la resa del ritmo è essenziale.

Tanto per fare un piccolo esempio concreto, a un certo punto Jacob, il protagonista, mentre sta discutendo in macchina con suo padre Irv, risponde alle provocazioni paterne canticchiando parafrasi delle canzoni del musical The Sound of Music, che in italiano è Tutti insieme appassionatamente.

Nell’originale il riferimento si coglie immediatamente, ed era importante che il lettore lo cogliesse anche nella traduzione italiana, purtroppo però Tutti insieme appassionatamente nella versione doppiata ha molte canzoni con il testo completamente diverso rispetto all’originale. Abbiamo quindi dovuto cercare una soluzione che mantenesse il senso del dialogo nell’originale e contemporaneamente salvasse il riferimento al musical in modo che fosse il più riconoscibile possibile. Per scegliere le canzoni più adatte all’orecchio del lettore italiano e poi parafrasarle in modo adeguato, poter contare su tre teste e tre sensibilità diverse, tutte al servizio del libro, è stato indubbiamente un vantaggio.

I primi due libri di Foer, Molto forte, incredibilmente vicino e Ogni cosa è illuminata, erano stati tradotti da Massimo Bocchiola, mentre Lei ha tradotto Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?: come si agisce in casi simili, in cui persone diverse traducono lo stesso autore? Ci si confronta per cercare di mantenere uniformità di stile?

Prima di tradurre Se niente importa, lessi naturalmente gli altri due libri di Foer nella traduzione di Bocchiola, ma in quel caso avevo da tradurre un libro di saggistica e il confronto era senz’altro meno immediato, perché già di per sé l’autore usava un registro diverso.

Anche nel caso di Eccomi, però, non credo sarebbe stato giusto e neppure possibile cercare di tradurre Foer sulle orme di Bocchiola, non avrei reso un buon servizio al libro né ai lettori. Foer ha la sua voce in inglese ed è di quella voce che mi sono messa in ascolto per renderla in italiano.

Ha conosciuto personalmente l’autore? Quanto è importante che si instauri un rapporto di collaborazione diretta tra autore e traduttore?

Non conosco personalmente Foer, ma tramite la casa editrice è stato possibile sottoporgli una serie di dubbi e posso dire che è stato molto disponibile con le richieste che gli abbiamo fatto.

Se l’autore è vivente, la possibilità di interpellarlo può essere preziosa per il traduttore, ma occorre mantenere il giusto equilibrio e il giusto rispetto dei diversi ruoli. Se il traduttore ha troppe richieste da sottoporre all’autore, può dare la sensazione di non saper fare il proprio mestiere, e viceversa, se l’autore ha la pretesa di mettere troppo becco nella traduzione, il traduttore non lavora con la giusta serenità.

Nel caso specifico di Eccomi, il lavoro di squadra e la discussione a tre spesso è servita per risolvere passi problematici senza bisogno di interpellare l’autore; all’autore abbiamo inviato solo quelle domande di cui in tre non eravamo riusciti a venire a capo.

Il lavoro del traduttore è un lavoro “invisibile”. Eppure proprio lui rappresenta il punto di contatto tra l’autore e il suo pubblico, assumendosi il delicatissimo compito di trasferire un testo da un lingua all’altra. Lei come vive questa sfida?

Io penso al traduttore un po’ come all’interprete in musica: due traduttori non tradurranno mai lo stesso libro nello stesso modo, esattamente come due pianisti non suoneranno lo stesso brano nello stesso modo. E lo stesso traduttore magari non ritradurrebbe un libro nello stesso modo a distanza di dieci, venti e trent’anni dalla prima volta, come un pianista non suona mai lo stesso brano in modo uguale identico.

Il traduttore è senz’altro più invisibile rispetto al musicista, ma fino a un certo punto: ciascuno di noi ha un suo bagaglio lessicale, delle sue idiosincrasie linguistiche, un suo modo di gestire la sintassi. Anche per questo, ogni traduttore funziona meglio con certi autori e meno bene con altri. Poi, certamente il mestiere aiuta, ma quando un libro è nelle mie corde ho quasi l’impressione di leggere in trasparenza nella lingua originale le parole italiane che mi servono, e quando si crea quel senso di corrispondenza armonica tra i due testi l’efficacia della resa è garantita.

Tradurre, insomma, è un’arte: cosa La ispira?

Il silenzio, per citare Mario Brunello, violoncellista straordinario che ha scritto un libricino delizioso proprio con questo titolo (Il Mulino). La musica è fatta di note e di pause. Anche nei testi – e se lo si sente particolarmente in poesia, vale altrettanto per la narrativa – il silenzio, la pausa è quella che permette alle parole di trovare il riverbero giusto.

A parte i libri che Le viene richiesto di tradurre, cosa legge abitualmente?

Leggo di tutto un po’, non solo narrativa. In ambito saggistico, amo molto i libri di storia della matematica e di storia della scienza e le biografie di scienziati, in particolare fisici (tra le mie preferite, Sta scherzando, Mr. Feynman, l’autobiografia di Richard Feynman, Saggi Zanichelli), ma spazio volentieri dalla bioetica alla politica, dall’economia all’antropologia alla pedagogia.

Oltre ai libri leggo tanto i giornali, le riviste; non solo riviste serie, di attualità: sono una gran lettrice di riviste femminili. E poi sono una divoratrice di fumetti: adoro Calvin and Hobbes di Bill Watterson, ma da Topolino a Corto Maltese, da Tex Willer ai Peanuts, mi piacciono tutti; di recente ho molto apprezzato la graphic novel di Guy Delisle, Cronache da Gerusalemme (tr. Francesca Martucci e Andrea Merico, Rizzoli Lizard). Leggo anche molti gialli e noir, su tutti Massimo Carlotto, di cui apprezzo molto anche i testi teatrali.

È senz’altro bello tradurre libri che ti piace leggere, e da questo punto di vista posso ritenermi molto fortunata: oltre a Foer, negli ultimi anni ho tradotto con continuità autori come John Banville per Guanda e Ferdinand von Schirach per Longanesi che, seppur diversissimi per stile oltre che per lingua, sento miei.

Infine, la nostra consueta domanda: che libro c’è, ora, sul Suo comodino?

In questo momento, in attesa di passare sulla scrivania, c’è Blue guitar di John Banville, che ho appena finito e che tradurrò a breve per Guanda. E poi Il fuoco dello sguardo. Collected Poems di John Berger, curato e tradotto da Riccardo Duranti (Coazinzola Press) e, da cominciare, Lo stato siamo noi di Piero Calamandrei (Chiarelettere).

Autore: Jonathan Safran Foer
Titolo: Eccomi
Traduzione: Irene Abigail Piccinini
Editore: Guanda
Anno: 2016

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