Classe 1979, di Savona, Davide Mosca ha scritto diversi romanzi storici, tra cui i best-seller “Il profanatore di biblioteche proibite” e “La cripta dei libri profetici” (Newton Compton). Ora collabora con Riza Psicosomatica, rivista fondata da Raffaele Morelli.
Nell’intervista di oggi ci parla del suo rapporto con i romanzi di Raymond Chandler e con la scrittura.
Tra tutti i romanzi di Chandler che hai letto, quale ti è piaciuto di più?
Il Lungo Addio. Anche perché c’è una storia dietro. Frequentavo il master della scuola Holden di Torino. Era consuetudine per le matricole lasciare un libro in biblioteca e prenderne uno a scelta in cambio. Per una volta tanto feci un grande affare. Non ricordo che libro regalai, ma dalla biblioteca uscii con il Lungo Addio e un principio di innamoramento.
Secondo te, Raymond Chandler e Agatha Christie sarebbero mai andati d’accordo?
No, sono agli antipodi. Alla Christie interessano trama e cervello, a Chandler stile e cuore. I romanzi di Chandler fanno acqua da tutte le parti, le trame sono scricchiolanti e anche alla terza lettura tanti passaggi restano incomprensibili. Mentre Howard Hawks e William Faulkner stavano lavorando alla trasposizione cinematografica del Grande Sonno chiamarono Chandler per chiedergli se uno dei protagonisti si era suicidato o era stato assassinato, perché era difficile capirlo dal testo. Chandler rispose con un dettagliato telegramma di ben tre parole: “non lo so.”
Potresti spiegare ai lettori cosa significa “hard boiled” in letteratura? Come ti sei avvicinato a questo genere letterario?
Gli americani chiamano hard boiled quello che in Europa si chiama noir. A differenza del giallo non si interroga tanto sul cosa, ma sul perché. Più dell’azione contano gli uomini. Tra i generi, è forse quello che riesce a penetrare più a fondo nelle maglie dell’uomo moderno. I protagonisti del noir sono gli eredi degli eroi omerici e medievali per certi versi, con lo stesso bagaglio di demoni interiori e destini inesorabili.
Ho saputo che hai un debole per Dostoevskij…
Non credo di esagerare se dico che Dostoevskij ha inventato la moderna psicologia, prima ancora di Freud e compagnia. Ogni suo romanzo è una discesa degli abissi. La cosa incredibile che alla fine si trova la luce. Forse non è stato il più grande scrittore di ogni tempo, ma certo il più grande narratore. Il suo è stato il grande romanzo dell’anima.
Prima i romanzi storici, poi il thriller e la collaborazione con Riza Psicosomatica. Ti senti più attratto dalla storia o dalla psicologia?
Dalla narrazione in generale. La storia nasce come storie, come racconti. E anche la psicologia, specie nella versione Jungiana, ha molto a che fare con la narrazione. Raccontare e ascoltare racconti: ecco quello che mi piace.
Facciamo ora un tuffo nel passato. Cosa ti ha spinto a diventare scrittore?
Il guaio è che dopo quindici anni e una dozzina di libri mi sento ancora alle prime armi! Come diceva Barth, scrivere è un modo di andare verso la fine rinviando la fine. Ha a che fare con la strada, e la strada mi piace.
Quali sono le tre caratteristiche imprescindibili che deve possedere un aspirante narratore?
Deve avere un buon lavoro o un buon patrimonio o un buon matrimonio, perché non si guadagna granché a scrivere! A parte gli scherzi. Ciascuno può accorgersene. Scrivere è come qualsiasi altra attività. Te ne accorgi se sai farlo bene, se ti viene naturale, pur tra la normale fatica, perché scrivere è faticoso. Certo, ci vogliono umiltà e lucidità per capirlo, e non sono doti molto diffuse, e questo è un problema. Dove è scritto che tutti devono essere scrittori? Ciascuno ha i propri talenti e non ne esistono di serie a e di serie b. Si equivalgono.
Romanzo o racconto breve?
Non sono abbastanza bravo da scrivere racconti, almeno non ancora. Solo i fenomeni possono scrivere grandi racconti, non più di una manciata di scrittori ogni dieci o vent’anni. Io non sono tra loro. Mi accontento dei romanzi.
Ci dai qualche anticipazione sul tuo prossimo progetto?
A maggio uscirà un romanzo sui generis: ho scritto per Mondadori l’autobiografia di Francesco Moser, un lavoro che mi ha appassionato e che sono sicuro entusiasmerà anche i lettori. Una vita da leggenda di un personaggio che come pochi altri ha interpretato il nostro paese. Un’epopea italiana. Grande Francesco.
E infine la nostra domanda di routine: qual è il libro che hai ora sul comodino?
Ne tengo una mezza dozzina, partendo dall’ultimo di Pynchon per arrivare a Saul Bellow. Se li consiglio? Non saprei: da un lato li amo, ma dall’altra mi mettono un po’ di tristezza addosso, perché sono inarrivabili! Intanto, però, cammino sulla mia strada e staremo a vedere dove porta.