Roberto Bolaño è lo scrittore assoluto, una vera rock star.

La sua morte prematura, come quella di DFW, ha lasciato un vuoto incolmabile. Ha lasciato interrotta una via maestra della letteratura, come fosse crollato un ponte. Una di quelle vie che divengono altamente trafficate, una volta costruito un ponte di corda, e dalle quali nascono sempre nuovi incroci, strade secondarie, sentieri poco battuti, per il lavoro di scrittura di altri autori, che percorrono quella strada e poi se ne distaccano.

Un maestro, un precursore.

Del resto 2666 è il grande romanzo del ventunesimo secolo, uno dei pochi monumenti letterari contemporanei che possa competere ad armi pari con capolavori quali l’Ulisse di Joyce o La Recherche di Proust o La montagna incantata di Thomas Mann o Viaggio al termine della notte di Céline e che ha l’ambizione e i personaggi, la struttura e la potenza narrativa dei grandi romanzi  dell’ottocento, russi e non.

Detto questo, veniamo a Notturno cileno che è l’ultimo romanzo pubblicato da Bolaño mentre era ancora in vita. Un romanzo incandescente come una barra di plutonio. Un romanzo che si avvicina molto alla scrittura monomaniacale di un Thomas Bernard. Una scrittura densa, senza capoversi, né divisione in capitoli, senza respiro, non ci sono stacchi, niente pause, o sei dentro o sei fuori.

Il protagonista, padre Sebastián Urrutia Lacroix, prete dell’Opus Dei, è sul letto di morte. Si alza sul gomito e comincia a raccontare la sua vita, istigato dal “giovane invecchiato” che lo pungola dall’ombra. “In punto di morte” è il momento della verità, si guarda fisso nella macchina da presa e negli occhi il lettore, per vomitare senza tregua la propria ultima, delirante confessione.

Un’ambientazione narrativa e una scelta linguistica che avvicinano molto questa narrazione a Malone muore, della Trilogia di Samuel Beckett.

«Ora muoio, ma o ancora molte cose da dire. Ero in pace con me stesso. Muto e in pace. Ma all’improvviso le cose sono emerse. La colpa è di quel giovane invecchiato. Io ero in pace. Ora non sono più in pace. Bisogna chiarire certi punti. Quindi mi appoggerò su un gomito e solleverò la testa, la mia nobile testa tremante, e cercherò nell’angolo dei ricordi quelle azioni che mi giustificano e perciò smentiscono le infamie che il giovane invecchiato ha sparso in giro a mio discredito in una sola notte fulminea»

Il protagonista nella sua veste di letterato e di critico incontra uomini straordinari. Farewell, il critico affermato e famoso, che introduce il giovane pretino Sebastián nel mondo delle lettere cilene e internazionali. Incontra Neruda e Jünger, di cui non coglie la grandezza, ma alcuni loro lati comici e deviazioni, con quel fare tipico di Bolaño che a un certo punto inserisce delle ripetizioni, dei refrain, come quel «Sordello, quale Sordello?» reiterato come un mantra per alcune pagine.

Tipiche della scrittura di Bolaño anche alcune stranianti metafore, che inseriscono nella parte figurata, che dovrebbe rappresentare nella trasposizione simbolica il termine proprio, un’immagine incongrua e spiazzante, che rende il paragone molto bolaniano.

Così «quand’ebbi finito di raccontare a Farewell questa storia i suoi occhi, socchiusi come trappole per orsi scattate a vuoto o rovinate dal tempo e dalla pioggia e dal freddo glaciale, continuavano a guardarmi» e «la voce di Farewell era come la voce di un grande uccello da preda che sorvola fiumi e montagne e valli e gole» mentre «il giovane bardo, al contrario, aveva una risata sottile come fil di ferro e come fil di ferro nervosa, e la sua risata andava sempre dietro alla grande risata di Farewell, come una libellula dietro a una biscia».

In altri passaggi se cerchi il senso letterale (penso alla lunga tirata delle Ombre Cinesi) non lo trovi, ma per qualche astrusa alchimia lessicale ne carpisci il senso e ne rimani tramortito e sbigottito, come leggendo un romanzo a chiave di cui non conosci il termine reale che si va immaginando e mistificando, e tutto diventa ambiguo, come sognare di essere in un rebus ed emozionati si brancoli nel buio muovendo le mani e accarezzando la corolla di un fiore inesistente, ma possibile da immaginare.

Questo romanzo sembra un grande oracolo, un vaticinio, scritto nella forma di un grande arcano in cui quello che si profetizza risulta più misterioso che chiarificatore. E avvicinandosi alla fine il calore del nocciolo incandescente del romanzo sale ulteriormente e le vicende del protagonista si trasformano in una brutale allegoria del Cile e della sua recente storia politica, fatta di colpi di stato e di desaparecidos.

Luci ed ombre. Il romanzo scorre come un fiume torbido, una sorta di flusso di coscienza, di ‘mare di merda’ o ‘tempesta di merda’, come dice alla fine lo stesso Bolaño, indicando la salita in superficie, dalla cantina dell’inconscio collettivo, di tutte le perversioni, la malafede e il male latente nella recente storia cilena.

A un certo punto il protagonista ammette di aver impartito segretamente lezioni di marxismo a Pinochet e alla sua giunta di governo.

Invitato in casa di María Canales (che al secolo è Mariana Callejas, scrittrice e moglie dell’agente DINA e torturatore Michael Townley), una di quelle case aristocratiche della Santiago del Cile per bene, dove si brinda a Champagne alla luce di sfavillanti lampadari, nelle sere di festa passati a parlare di letteratura e di teatro, uno degli invitati si perde e camminando, con il bicchiere ancora in mano, lungo infiniti corridoi si ritrova in cantina, dove un uomo è legato nudo a una branda, seviziato e imbavagliato.

«Cile, Cile. Come sei potuto cambiare tanto?, gli dicevo a volte, affacciato alla finestra aperta, guardando il bagliore di Santiago in lontananza. Che cosa ti hanno fatto? I cileni sono impazziti? Di chi è la colpa?»

Ma chi è infine il giovane invecchiato?

Ne abbiamo uno anche noi dentro noi stessi. Basta guardare qualche foto giovanile per riconoscere il suo sguardo ottimista e sognatore, che sembra guardarci con biasimo e rammarico per quello che invecchiando siamo diventati tradendo i nostri sogni adolescenziali, che si ribellano a noi stessi, imborghesiti e incartapecoriti, che da vecchi ci detestiamo per essere venuti meno alla coerenza delle promesse dei nostri primi anni.

Roberto Bolaño
Notturno cileno
Nocturno de Chile
Traduzione di Ilide Carmignani
Adelphi, 2016