Non chiederti mai per chi suona la campana, la campana suona sempre per te. Qualcuno dice che siamo uguali davanti alla morte. Forse è la frase di rito della Signora nero vestita, quando viene a prenderci brandendo un’anacronistica falce (ma forse si è aggiornata e adesso si presenta su una più moderna e rumorosa mietitrebbia).
Eppure subito dopo la morte torniamo ad essere diversi. Perché diverse sono le nostre sepolture.
Ci sono gli avelli dimenticati. I monumenti al milite ignoto. Ci sono le piramidi, che proteggevano i sarcofaghi dei faraoni. I mausolei e i monumenti funebri dei re e dei papi. Ci sono le lapidi e i colombai dei nostri cari, inizialmente frequentati e tenuti in ordine, con i fiori sempre freschi, che pian piano con lo scorrere della sabbia del tempo, più nessuno visiterà e gli amabili resti finiranno dimenticati, nelle fosse comuni.
Poi ci sono le tombe degli scrittori, famosi come rock star, marmoreo teatro di lunghe processioni, dove devi fare la fila per lasciare un fiore, un sasso o un foglietto con vergata un’estemporanea poesiola, una bottiglia di vino vuota, in cui qualcuno, dopo di noi, infila una rosa fresca aulentissima che sgocciolerà i suoi petali rossi sul marmo bianco.
Poi c’è anche chi del visitare tombe ne ha fatto quasi una professione. In Italia abbiamo Giuseppe Marcenaro, che ha scritto Cimiteri, Storie di rimpianti e di follie. Che ha girato il mondo passando da un pellegrinaggio a Charleville sulla tomba di Arthur Rimbaud; a un viaggio a Les Invalides per rendere omaggio a chi i cimiteri li ha inventati, e che, morto nell’esilio di Sant’Elena il 5 maggio 1821, potè rientrare in Francia con le sue spoglie mortali solo nel 1840.
Ora si aggiunge a questa schiera di “tombaroli” anche Cees Nooteboom, olandese, gigante della letteratura contemporanea, autore de Il canto dell’essere e dell’apparire di Rituali e infine di questo Tumbas, vero e proprio caso letterario, tradotto in Italia da Iperborea. A seguire Nooteboom nei suoi pellegrinaggi attraverso i cimiteri di tutto il mondo è la fotografa Simone Sassen, che ha immortalato le celebri tombe.
Nooteboom parte da un presupposto:
«La maggior parte dei morti tace. Non dice più niente. Ha – letteralmente – già detto tutto. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare. Parlano anche ai non nati, a chi non viveva ancora quando hanno scritto quel che hanno scritto».
La prima parte di questo mirabile libro è infatti una lunga disquisizione sulla bellezza e l’immortalità della poesia. E al tempo stesso un’arringa sull’irrazionalità che ci spinge a fare quello che facciamo al cospetto delle tombe, come fossimo al cospetto dei morti e loro potessero ancora sentirci.
Perché qualsiasi cosa facciamo con le tombe è irrazionale. Pregare, portare un dono, fiori o sassi, profumi, cantare, leggere brani di romanzi o di poesie. Così come non ci rassegnamo alla morte dei nostri cari, a maggior ragione non possiamo lasciare andare i poeti che ci hanno emozionato e si va quindi a far visita a dei morti che si conoscono meglio della maggior parte dei vivi:
«Perché è questo che vogliamo: vogliamo essere notati dai morti, vogliamo che sappiano che ancora li leggiamo, perché continuano a parlarci. Mentre siamo lì in piedi davanti alle loro tombe siamo circondati dalle loro parole. La persona non c’è più, ma ci sono ancora le parole, i pensieri. Il minimo che si possa fare è ricambiare un pensiero».
La seconda parte di questo libro è una lunga carrellata di tombe, con le foto e le parole che resuscitano il loro ricordo.
C’è la tomba di Walter Benjamin, seppellito in una fossa comune, ma a Portbou, tra la Francia e la Spagna, c’è una lapide eretta in sua memoria, con una sua citazione: «Non esiste nessun documento di cultura che non sia allo stesso tempo un documento di barbarie». Sulla pietra tombale sono posati dei sassi, come su quelle di Brodskij nel cimitero dell’isola di San Michele a Venezia o quella di Canetti nel cimitero di Fluntern a Zurigo.
C’è il cimitero acattolico per stranieri di Roma, all’ombra della piramide Cestia. Lì sono sepolti Keats e Shelley, ma anche il figlio di Wilhem von Humboldt e quello di Goethe. Qui, seppur diretto verso le tombe dai nomi più noti, Nooteboom si imbatte nella lapide di Pëtr Šarov, un allievo di Stanislavskij, che visse a Roma e mise in scena i grandi attori russi ad Amsterdam, così lo riincontra per caso, come si incrocia e si saluta un vecchio amico.
La tomba di famiglia di A.B.C., detto Adolfito, quell’Adolfo Bioy Casares amico inseparabile di Borges, con il quale ha scritto anche alcuni libri, amici diversissimi tra loro: l’uno tombeur de femmes, mentre Borges visse per tutta la vita con la madre che morì pluricentenaria. Infine i due amici furono separati dalla morte, Adolfito seppellito alla Recoleta di Buenos Aires, mentre Borges riposa “in esilio” a Ginevra.
O l’estrema sepoltura di Stevenson, chiamato Tusitala dagli indigeni, alla quale si giunge dopo un’ascesa:
«Mount Vea, il monte in cui è sepolto Robert Louis Stevenson, era sacro agli abitanti delle isole di Samoa. Apposta per questo una volta morto, i capi del villaggio aprirono un sentiero nella foresta vergine e trascinarono fin lassù la cassa in un caldo torrido. Cento anni più tardi ho percorso la stessa strada, da solo. La foresta mi frusciava e mi mormorava attorno, la salita sembrava interminabile, mi sentivo come se io stesso fossi diretto al regno dei morti».
Perché anche questo libro è un’ascesa nell’estasi per il lettore: portati per mano da Nooteboom, come Dante da Virgilio, scopriamo che la morte può essere anche poesia e quindi bellezza.
Cees Nooteboom
Tumbas
Tumbas. Graven van ditchters en denkers
Traduzione di Fulvio Ferrari
Iperborea, 2015