Thomas Ligotti è uno scrittore di culto negli Stati Uniti.

Recentemente gli autori della fortunata serie televisiva True detective sono stati accusati di aver plagiato proprio Thomas Ligotti, specialmente nei dialoghi del personaggio Rust Cohle (interpretato da Matthew McConaughey). Messi alle strette non hanno che potuto candidamente ammettere di ispirarsi liberamente a questo autore. Del resto la prosa di Ligotti è inconfondibile. Lirica e stringente, evocativa e opulenta.

Ma anche negli Stati Uniti la sua consacrazione non è stata immediata.

La sua prima raccolta di racconti è del 1986, Songs of a Dead Dreamer, che la casa editrice Silver Scarab Press stampò in soli 300 esemplari, che però bastarono, grazie al passaparola, a farne uno scrittore di culto, ma sconosciuto alle masse. Bisognerà attendere il 1990 e un nuova edizione del libro della Carroll & Graf, per imporre Ligotti a livello nazionale sul suolo degli Stati Uniti.

Eppure quando nel 1996 uscì per la Raven Press l’antologia The Nightmare Factory, che consacrò definitivamente Thomas Ligotti come nuova voce della letterarura dell’orrore americano, questi continuava a vivere defilato, senza rilasciare interviste, arrivando a far credere che il suo fosse solo uno pseudonimo, dietro il quale si celasse qualche altro grande scrittore horror.

Finalmente arriva in Italia, per i tipi de Il Saggiatore, la raccolta di racconti Teatro grottesco (titolo in italiano anche nella versione inglese).

Sono racconti nei quali ragazzi adolescenti devono continuamente cambiare casa, perché il loro padre traffica nel seminterrato creando macchine che sconvolgono la psiche. Racconti in cui appaiono cittadine governate dal genio incontrastato del responsabile cittadino, che può decidere di trasformare ogni attività e ogni negozio in baracconi di un assurdo Luna Park.

Ad un certo punto, in ogni racconto di Ligotti, c’è un vero e proprio salto di paradigma. Si subentra in uno stato di cose assolutamente nuovo e originale. Cambia non solo la prospettiva mentale, ma anche lo spazio fisico è costretto a seguire nuove leggi, come in seguito a una nuova teoria universale che s’inneschi in pratica.

Ligotti è il nuovo Einstein. Un teorico che mette in pratica teoremi dell’orrore. Dobbiamo quindi guardare le cose che ci stanno attorno nella nostra stanza, nella quale stiamo leggendo, per rassicurarci che nulla sia cambiato, ma la loro ironica e fittizia immobilità, diventa a questo punto irreversibilmente inquietante.

Ma quello che fa la differenza sono due elementi. La filosofia di Ligotti e la sua espressione.

Il suo è un vero e proprio sistema filosofico, rigoroso e esauriente. I suoi sono temi ricorrenti che formano un insieme coerente. I suoi diventano veri e propri saggi lirici, sull’insegnamento dei suoi numi tutelari, come ammette lui stesso in una rara intervista sulla sua formazione:

«Dopo Machen lessi Poe e Lovecraft e trovai in essi ciò che non sapevo nemmeno di stare cercando: scrittori che mettevano se stessi in ogni pagina dei propri lavori e che scrivevano come saggisti di se stessi e poeti lirici».

Il mondo è un continuo arcano cangiante. A volte si rivela kafkiano e inchioda i suoi personaggi in situazioni incongrue e grottesche, che appaiono immediatmente naturali e semplici, come un incubo che segua la sua traiettoria matematica, la sua logica assurda. Il mondo non è che spettacolo e i suoi personaggi tentano in tutti i modi di sfuggire alla stretta dello spettacolo.

«Tutto ciò per cui verosimilmente viviamo e verosimilmente moriamo – scritture religiose o slogan improvvisati, poco cambia –, tutto è spettacolo. Nascita e crollo degli imperi: spettacolo. Scienza, filosofia, tutte le discipline al mondo, il mondo stesso, e anche tutti quegli altri pezzi informi di materia che lampeggiano nel buio lassù».

E che tipo di spettacolo?

«Ma questa ho scoperto essere l’essenza dello spettacolo, il quale in fin dei conti non è altro che una baracconata di spettacolo. Le mutazioni inaspettate, la pura infondatezza degli esseri, la volatilità delle cose… Per necessità viviamo in un mondo, un mondo-baracconata, dove tutto, in definitiva, è eccentrico e in definitiva ridicolo».

Ogni catapecchia, ogni baracca fatiscente o palazzo diroccato dei suburbi nasconde l’orrore e l’ignoto. Macchine spettrali per esperimenti sull’anima, prodotti chimici che innescano trasformazioni fisiche comandate dai sogni di un estraneo, magazzini dove ridicoli manichini riprendono la vita che avevano in precedenza. Come in un baudelaireano ideale in cui strane forme vengano plasmate per la bocca dei Titani.

Racconti nei quali Ligotti ci sembra indicare che l’orrore è dietro l’angolo, sparso e disperso nella nostra stessa città, celato dietro gli occhi ciechi delle finestre dei vicini. Tutto non è che una baracconata di spettacolo, un orrendo spettacolo di vaudeville, che già sappiamo che presubilmente non finirà in uno schianto, ma con un lamento, se non in quella risata che ci seppellirà.

Secondo elemento è la lingua. Il solo incedere della precisa e incalzante scrittura di Ligotti mette inqietudine e soggezione nel lettore. È un andamento sillogistico, essenziale e inderogabile. Una prosa affilata come un coltello, che lanci bagliori nel buio. Che s’illumina all’improvviso di frasi auliche e poetiche, come una mano che accarezzi, prima di scendere alla gola, togliere il respiro e strangolare.

Non a caso Thomas Ligotti è un grande estimatore di Leopardi. Quel Leopardi con il quale condivide un concetto pessimistico del Cosmo, governato dalla natura matrigna. Ma capace di poesie che squarciano il velo di Maya sia sulla verità, che sulla bellezza.

Quelle di Ligotti sono ninna nanne dell’orrore, raccontate perché il fanciullino non si addormenti mai più. Per risvegliare contemporaneamente il sopito desiderio dell’insolito, che giace addormentato, ranicchiato dentro di noi.

Ligotti è come quel barbone schifoso fermo al semaforo, che bussando con il pugno al finestrino ci chiede una sigaretta, avvicinando alle labbra screpolate due dita messe a forbice e una volta che è salito a bordo si rivela:

«Una figura spettrale e loquace seduta accanto a me a fare discorsi deliranti su ogni tipo di cose affascinanti e senza senso, un’autobiografia della confusione»

Poi viene tutto il resto. L’orrore puro. La paura. Sensazioni che ti permeano l’anima e rimangono a macerare per giorni. Finché camminando per strada non ti giri di scatto, per sincerarti che quell’ossessione non ti stia realmente pedinando, materializzatasi sul marciapiede, nei tunnel della metropolitana, nel tuo stesso quartiere, in carne e ossa e sangue.

Ligotti rimane un irregolare, impossibile da classificare. Un unicum. Che costituisce una galassia a sé stante nella quale orbitano pianeti sconosciuti e stelle distanti. Un inclassificabile che consiglierei a chi vuole ascoltare una voce nuova, che narra di cose inconsuete, che una volta apprese sembrano appartenere da sempre alla nostra parte più oscura.

P.s. I blurb da mettere sulla fascetta editoriale:

1) «Thomas Ligotti ha la statura letteraria per poter guardare Stephen King dritto negli occhi, senza abbassare lo sguardo».
2) «Thomas Ligotti sta tanto vicino a Roberto Bolaño, nel costruire un universo letterario unico e inconfondibile, da poterne sentire l’odore di santità che proviene dai suoi calzini sporchi».

Thomas Ligotti
Teatro grottesco
Traduzione di Luca Fusari
Il Saggiatore, 2015