“Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo”. 

Nel film “L’attimo fuggente”, il professor Keating pronuncia queste parole di fronte a una classe di studenti abituati a giudicare poesia e letteratura con gli occhi di critici dalla mente atrofizzata da scale di valutazione ormai obsolete.

“Quando leggete non considerate soltanto l’autore, considerate quello che voi pensate”.

Per chi scrive recensioni di libri di narrativa, di poesia o memoir, questa frase dovrebbe sempre essere tenuta a mente.

Chi scrive è stato – ed è – un divoratore di classici, ma proprio perché spinto dalla curiosità tipica del lettore – o semplicemente per necessità – si troverà per le mani anche la “novità” della scrittrice-casalinga-sfornatrice-di-best-seller australiana, senza sapere come maneggiarla.

Tu, New York Times, lo metti in cima alla classifica dei libri più venduti. Io, lettrice, lo metto in cima alla pila dei Vanity Fair.

Ma neanche questo cinismo trendy va bene. Dove sta l’apertura mentale? Dov’è finito il cambio di prospettiva che si scorge guardando il mondo da angolazioni diverse?

Non si può continuare a vivere in un sonetto di Shakespeare, anche perché contro quella femme fatale della Dark Lady e quel belloccio del Fair Youth non c’è storia. Il piacere che però si prova nel rileggere un classico che in passato ci ha mandato in estasi, rende tutto ciò che è nuovo un suono stridulo, poco corposo, fiacco.

Vaghiamo in cerca di una leggerezza e di un’idea del bello che non ha niente a che fare con la vita – sociale, politica, lavorativa, amorosa – ma che, invece, ha a che fare con la vacuità dell’esistenza. Gustarsi un buon libro è come trovare l’anima gemella: deve arricchire il tuo io senza dominarlo, influenzarlo senza calpestarlo.

“La bellezza è un aspetto del genio – anzi, è qualcosa in più del genio poiché non richiede alcuna spiegazione”, scrisse Oscar Wilde nella prefazione de “Il ritratto di Dorian Gray”.

Mi spiego meglio citando uno scrittore che di Wilde è un gran intenditore. Un ebook molto interessante pubblicato da La Lettura (Corriere della Sera), e intitolato “Cosa resta della letteratura?”, racconta in 45 pagine la conversazione tra la giornalista Alessandra Farkas e Harold Bloom, il noto ultraottantenne critico letterario statunitense.

Harold Bloom è un bacchettone di quelli con la B maiuscola. Una cultura enciclopedica, la sua. Legge in inglese, greco, ebraico, latino, yiddish, francese, spagnolo, tedesco, portoghese e italiano.

Amato e criticato per quella famosa lista di autori (21 sono italiani) che rientrano nel famoso Canone Occidentale – a suo parere stilata di fretta e per volere della casa editrice – Harold Bloom è autore di numerosi saggi, prefazioni, articoli e opere sulla letteratura e sulla critica letteraria.

“Se un libro non possiede splendore estetico, forza cognitiva, autentica originalità, e soprattutto rilevanza umana più che politica non vale la pena leggerlo”, dichiara Bloom senza mezzi termini. 

Gli autori che Bloom rilegge ogni settimana e che sono, secondo lui, in possesso di splendore estetico sono: Dante, Shakespeare, Cervantes, Faulkner, Omero, Milton, Tolstoj, Proust e Wilde. E ancora: Emily e Charlotte Bronte, Jane Austen e George Elliot.

Insomma, per i contemporanei non c’è speranza. E invece no. Il critico nomina Cormac McCarthy, Philiph Roth, Thomas Pynchon, Don DeLillo, Tony Kushner, Denis Johnson come i grandi autori di oggi.

J.K. Rowling, invece, è definita da lui “bislacca”. Non si salva neanche Stephen King. Di Donna Tart dice di non averne mai sentito parlare.

E i poeti? Per lui i migliori poeti viventi sono John Ashbery, Rosanna Warren e Peter Cole. A proposito della poesia, Bloom sostiene che “Il fatto che un’arte tanto difficile continui a esistere è di per sé un vero miracolo. Dimostra che il mondo non diventa peggiore o migliore, solo più vecchio”.

Insomma, questo critico e professore emerito di Yale sembra confermare quel dubbio atroce che ci attanaglia ogni volta che stringiamo tra le mani un nuovo best-seller. Varrà o non varrà la pena?

A mio parere, le docce di pessimismo lasciano sempre un odore stantìo. Sono amare e necessarie come la medicina per la tosse. A lungo andare ci rendono però ipocondriaci. E vediamo ogni novità come un altro batterio che rischia di infettarci. Non è sempre così. Esistono i batteri buoni e i batteri cattivi.

L’importante non è tanto classificare quanto farsi la domanda: quali sono i buoni per me? E quali i cattivi?

“Come ha detto Frost, due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta, ed è per questo che sono diverso”.

https://www.youtube.com/watch?v=EuH5SgD1d24