“Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono mai andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca).

La pubblicazione di Elegia americana, di J.D. Vance, a giugno 2016, (tradotto nel 2017 da Garzanti), precede soltanto di sette mesi la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti.

I due avvenimenti sono, inevitabilmente, collegati, perché il memoir di Vance fa luce sulla vita di quelle persone che hanno votato proprio per l’attuale presidente, come la più potente delle candele.

L’America di Vance è quella della rust belt, la regione compresa tra i Monti Appalachi settentrionali e i grandi laghi, che attraversa gli stati che, fino alla metà del XX secolo avevano goduto di un’economia prospera, grazie alla produzione del ferro e dell’acciaio. La crisi del settore ricade, fredda e pesante come un’ascia, sulla vita degli abitanti, molte famiglie sono costrette a migrare, inclusa quella dell’autore, che da Jackson, in Kentucky, si trasferisce a Middletown, Ohio.

La prima parte del memoir racconta l’infanzia di J.D. Vance, forgiato dalla filosofia hillbilly dei nonni, i quali gli insegnano a diventare un uomo onesto, un gran lavoratore, pronto a tutto per difendere l’onore della propria famiglia, anche ricorrendo alla violenza fisica e verbale.

“Jimmy entrò in una farmacia che per combinazione vendeva quel giocattolo, così lo prese e iniziò a giocarci. “Il commesso non fu contento. Mi disse di metterlo giù e di uscire”. […] I nonni si precipitarono all’interno, chiedendo spiegazioni per la scortesia del commesso. Quest’ultimo si giustificò dicendo che Jimmy aveva preso in mano un giocattolo molto costoso. “Questo?” chiede il nonno sollevando il giocattolo. Quando il commesso annuì, il nonno gli tirò un cazzotto in faccia. Poi scoppiò il caos”.

Ed è questa è la prima contraddizione che Vance desidera illuminare con il suo faro di ricordi d’infanzia: avere un metodo del tutto personale per farsi giustizia non significa non nutrire fede nel sogno americano e nelle opportunità che gli Stati Uniti hanno da offrire al proprio popolo.

J.D. Vance si sofferma molte volte a riflettere sul destino che accomuna la gran parte della sua gente, e dal quale lui è riuscito a fuggire, grazie agli insegnamenti della nonna: essere nati e cresciuti in condizioni di povertà non giustifica un comportamento distruttivo, pessimista e autolesionista, gli diceva spesso la donna, cercando di trasmettergli, seppur con i suoi metodi poco convenzionali, tutto l’amore che la madre tossicodipendente non era stata in grado di offrirgli.

Nella seconda parte del memoir, l’autore ci guida verso il percorso del riscatto: prendersi un periodo sabbatico per entrare nel corpo dei Marine, dopo il diploma, gli ha trasmesso sicurezza in se stesso, senso di praticità e amore per la disciplina e il duro lavoro, che gli hanno appianato la ripidissima salita verso l’Ivy League: entrare alla prestigiosa Scuola di Legge di Yale ha confermato che, nonostante i traumi, i pianti, la violenza, la media altalenante, il piccolo J.D. è diventato un avvocato realizzato della classe dirigente.

E coloro che non ce l’hanno fatta? La fetta più grande di una torta misera e masochista? Vance non si sbilancia: da una parte menziona la classe politica precedente a Trump, incapace di dialogare e creare empatia con la classe povera della rust belt, come se fossero fantasmi o, peggio, appartenessero a una diversa civiltà; dall’altra, sostiene che, a prescindere dal presidente in carica, chi continua a utilizzare il Welfare per comprarsi l’eroina anziché sfamare i propri figli, sarà sempre schiavo della propria miseria.

J.D. Vance non racconta soltanto le sue memorie, ma rende il lettore partecipe della storia di una parte della popolazione statunitense che, per una volta, non è quella che vive lungo le coste. Si capisce che il suo intento è sensibilizzare, informare, oltre che esorcizzare vecchi spettri che ogni tanto lo tormentano.

Il paragone con un altro memoir pubblicato nello stesso anno sorge spontaneo: Boy Erased di Garrard Conley, che racconta la vita di una famiglia religiosa della Bible Belt, la quale costringe il figlio a “curarsi” dall’omosessualità. I due temi sono diversi, ma egualmente dotati di un’esplosività che mette in luce l’incoerenza e la discriminazione del paese in cui i due scrittori vivono.

La lettura di Elegia americana è scorrevole, ma quella di Boy Erased è densa e trasparente come il miele. A tratti, ho trovato la scrittura di J.D. Vance rigida, quasi blindata alle emozioni. Garrard Conley che – lo riconosco – è scrittore di professione – tesse invece la tela di un romanzo, oltre che di un memoir, e permette al lettore di entrare in contatto con i suoi turbamenti.

Presto Elegia Americana verrà trasposto sul grande schermo: Netflix ha acquistato i diritti e Ron Howard ha iniziato a girare le prime scene l’anno scorso, in Georgia.

Autore: J. D. Vance
Titolo: Elegia americana
Editore: Garzanti
Pagine: 245
Anno: 2016