L’ospite di questa intervista è Francesco Targhetta, giovane professore e scrittore trevigiano. A pochi giorni dalla premiazione del Premio Campiello 2018, l’autore ci racconta Le vite potenziali (Mondadori, 2018), romanzo selezionato nella cinquina finalista del premio.
Iniziamo con una domanda sulla tua produzione letteraria precedente. In passato, ti sei sempre occupato di poesia, ricordiamo la raccolta “Fiaschi” (2009) e il poema in versi “Perciò veniamo bene nelle fotografie” (2012). Come è percepita la poesia al giorno d’oggi? C’è ancora tanta gente che la legge?
Al giorno d’oggi ci sono più persone che scrivono poesia rispetto a quelle che la leggono. Questo è da sempre un problema della produzione poetica in generale. In Italia, in realtà, la poesia mi sembra molto in forma, forse anche più in forma della prosa. Il problema principale secondo me è che ormai la poesia soffre di una totale invisibilità, in primo luogo editoriale. Se volessi pubblicare un’altra raccolta di poesie, per esempio, non saprei neppure con chi farlo, trovare uno sbocco editoriale è difficilissimo. Ma al giorno d’oggi la poesia ha una scarsa visibilità anche di lettori e di critici. Nonostante questo riesce a prendersi i suoi spazi. Ho notato che appena la si condivide colpisce molto, coinvolge. Quando, a scuola, affronto la poesia, cerco delle soluzioni alternative a quelle più classiche. Di solito si comincia subito con Carducci e con Petrarca, ma quando si fa leggere ai ragazzi qualche poeta contemporaneo vedo che hanno una bella reazione e che sono stimolati.
Le vite potenziali è la prima opera in prosa che scrivi. Come mai hai intrapreso questo cambiamento e come ha influenzato il tuo modo di scrivere?
Ho intrapreso questo cambiato perché avevo voglia di raccontare una storia che avevo già in mente, dei personaggi e un luogo. Mi rendevo conto che le opzioni erano due: o scrivevo un altro romanzo in versi, il che sarebbe stata una ripetizione, oppure sperimentavo la prosa, su cui non mi ero mai cimentato, se non in ambito accademico-saggistico, che richiede una scrittura completamente diversa. La scelta della prosa ha influenzato totalmente il mio modo di scrivere e ho dovuto trovare uno stile, un registro, una voce nuovi. Avevo in mente due cose soprattutto, che poi sono quelle che ho cercato di mettere in partica nel libro: da una parte ho ricercato l’ampiezza sintattica, uno stile il più possibile ricco di subordinate, dall’altra la ricchezza linguistica della poesia.
Il romanzo racconta uno squarcio delle vite di Alberto, Luciano e Giorgio, detto GDL. I tre protagonisti sono tutti molto diversi fra di loro ma sono accomunati dallo stesso ambiente lavorativo: la Albecom, un’azienda di e-commerce con sede a Marghera. Considerati i tuoi studi e il tuo percorso formativo, nel racconto ti cali talvolta in un contesto a te sconosciuto. Come mai hai deciso di soffermarti sul mondo dell’azienda? Qual è lo spunto dal quale è nato il libro?
La scelta di soffermarmi sul mondo dell’azienda è nata da una sfida. Molto spesso gli scrittori affrontano ciò che conoscono bene mentre, secondo me, il ruolo di un autore dovrebbe essere quello di dare voce a mondi poco rappresentati. Penso che quello aziendale abbia poca visibilità e che possa essere molto più interessante di quanto sembri. Nella stesura del libro e nello sviluppo della storia mi sono ispirato alla vita di un mio amico imprenditore che ha una azienda di consulenza informatica. Dal 2013 ho iniziato a frequentare l’azienda e ho avuto modo di conoscere un mondo che ignoravo totalmente.
La sede dell’azienda in cui lavorano i tre protagonisti è a Marghera. Che ruolo ha questo scenario nel romanzo e nelle vite dei protagonisti?
Nel romanzo Marghera ha un ruolo molto importante anche se non centrale. Sebbene ci siano anche altri scenari, Marghera è stata una scoperta decisiva per la scrittura del romanzo. È un luogo pieno di contraddizioni, e le contraddizioni servono ad alimentare la scrittura: c’è l’opposizione tra il tanto grande e il tanto piccolo, tra l’industria gigantesca che fa navi da crociera e quella immateriale e smaterializzata dell’informatica, tra il vecchio e il nuovo, tra la parte abitata, che è tranquilla e pacifica, e quella industriale che è invece un dedalo rumorosissimo e caotico. È un posto unico, con una sua identità molto forte; è un posto che prima non conoscevo e che ho scoperto frequentando l’azienda del mio amico. È il tipico luogo che non si ha mai voglia di visitare perché lo si ritiene del tutto privo di interesse; dopo averlo scoperto, invece, ci torno sempre volentieri. Il Guardian due anni fa ha scritto un articolo invitando i turisti inglesi ad andare a visitare Marghera e non Venezia. È un luogo di interesse, con una sua storia che ho avuto modo di approfondire studiando alcuni libri presi in prestito alla biblioteca dell’ISTRESCO. Per la vita dei personaggi, però, Marghera è un ambiente minore. Solo Luciano abita lì ma è solo un luogo come un altro, in cui cerca di scappare da se stesso.
In che personaggio della storia ti immedesimi di più?
Mi sono sparso un po’ ovunque ma Luciano è quello a cui assomiglio di più, è quello in cui ho messo più di me stesso, anche se in modo peggiorativo. A lui le cose vanno peggio di come sono andate a me nella vita ma molte delle mie attitudini nerd le ho passate a lui.
Nel corso della narrazione predominano le figure maschili mentre quelle femminili sono meno definite e autonome, sempre rapportate alla sfera sentimentale dei tre protagonisti. Come mai questa scelta?
La scelta è stata dettata da un desiderio di realismo perché in queste aziende ho notato che la percentuale tra lavoratori maschi e donne è decisamente a favore dei primi. Le lavoratrici sono tra il 5 e il 10 per cento del totale, al momento sono in crescita ma restano ancora una minoranza netta. Mettere al centro del romanzo una figura femminile e darle un ruolo importante, di informatica, avrebbe connotato troppo la storia, avrebbe dato un taglio che non volevo. Oltre al desiderio di realismo, però, c’è anche una mia maggiore cautela verso i personaggi femminili che sono, secondo me, molto più difficili e sfuggenti.
Quali scelte ti hanno guidato nella definizione del tono e del registro stilistico? Ti sei ispirato a qualche autore?
Le scelte che mi hanno guidato nella definizione del tono e del registro stilistico sono la concinnitas, il desiderio di usare un giro di frase più ampio possibile e la ricchezza lessicale. Non manca il desiderio di usare un po’ del gergo tecnico, di far parlare i personaggi con la loro lingua e di essere così il più realista possibile. Per quanto riguarda gli autori a cui mi sono ispirato, mentre scrivevo ho cercato di leggere soprattutto la letteratura americana perché si contraddistingue per la narrazione e per la costruzione della storia. Il mio timore era quello di essere carente dal punto di vista della trama. Leggevo la letteratura per imparare a raccontare in prosa, per imparare a insistere di più sul plot. Il rischio dei poeti che si danno alla prosa, infatti, è quello di scrivere romanzi in cui davvero non succede niente o romanzi troppo lirici. Per quanto riguarda la forma e lo stile, penso di essere stato influenzato dalle letture di letteratura italiana del Novecento che ho fatti negli anni, soprattutto di quegli autori più torrenziali come il Berto de Il male oscuro, più attenti agli aspetti sintattici.
Ora che il libro è pubblicato e che è trascorso del tempo dalla sua composizione, quale pensi che sia lo scopo della storia che racconti? Intravedi significati nuovi rispetto a quando lo avevi scritto?
Si, intravedo dei significati nuovi. Tutto è partito da uno studio antropologico sui nerd, volevo vedere come stanno al mondo questi tipi umani che sono molto diffusi e che sono sempre stati a disagio nella società. Poi, però, ho preso altre strade: il romanzo cerca di capire la contemporaneità, soprattutto nei suoi aspetti di ricezione della tecnologia, cerca di capire come la ipertecnologizzazione della realtà stia cambiando le nostre vite e il nostro modo di stare al mondo. All’inizio, devo dire la verità, non era questo l’intento che avevo, ma forse sapevo già che, necessariamente, si sarebbe andati a finire lì. Queste sono cose che sono emerse dopo e che forse sono più tematizzate nella seconda metà del libro.
Ti senti più scrittore o professore? Come riesci a combinare le due professioni?
Mi sento decisamente più prof perché lo faccio da più tempo. Quella dello scrittore, in realtà, non riesco a concepirla ancora come una professione ma semplicemente come una passione e spero che rimanga tale. Non ho mai avuto nessuna pressione, ho sempre scritto i libri quando volevo io. Questo libro è nato senza che io avessi un contratto con nessuna casa editrice, l’ho finito e poi ho cercato uno sbocco editoriale, quindi ho lavorato in totale tranquillità, senza nessuna pressione. Adesso non sarà più così ma continuerò a prendermi i miei tempi. Ho già avvisato che passeranno quattro-cinque anni prima del prossimo libro perché sono convinto che si debba diventare delle persone diverse prima di scrivere un’altra storia. La mia fortuna è che non ho la necessità economica di scriverne subito un altro. Per fortuna ho un altro lavoro che mi piace molto e che mi permette di scrivere soltanto quando ne ho davvero l’esigenza interiore.
Per il prossimo libro: poesia o prosa?
Per quanto riguarda il prossimo libro, nel 2019 ci sarà una riedizione di Perciò veniamo bene nelle fotografie curata da Mondadori. In generale, ho scritto qualche poesia ma non abbastanza da dare forma a un libro. Già da un po’ di anni ho un’idea su un romanzo in prosa. In autunno comincerò la fase di studio e di documentazione. La cosa nuova è che c’è già il titolo. Nei miei libri il titolo è sempre arrivato alla fine e con grandissima sofferenza. Questa volta, invece, è quasi l’unica cosa che c’è.
Le vite potenziali è stato selezionato nella cinquina finalista del Premio Campiello. Una grande soddisfazione immagino. Sei emozionato? È stata una cosa inaspettata?
Sono molto emozionato ed è stata una bellissima notizia. È il mio primo romanzo in prosa e, all’inizio, ero molto incerto sulla ricezione del libro. Questo riconoscimento, invece, è stato di grande stimolo e mi ha dato grande forza.
Infine, la domanda che facciamo a tutte le persone che intervistiamo: qual è il libro sul tuo comodino in questo momento?
Un libro meraviglioso, in verità l’ho appena finito quindi non è già più sul comodino: Il figlio di Philipp Meyer. Ne ho già un altro ed è Una cosa sull’amore di Jeffrey Eugenides. Ancora America, insomma.