Occorre senza dubbio una sapiente miscela di audacia e protagonismo per svelare le proprie zone d’ombra, per “spogliarsi” di fronte ad un pubblico di sconosciuti e lasciare che il loro giudizio intervenga sulla nostra persona, senza aver la possibilità di opporre obiezioni.

Heidi Julavits è riuscita in questo e, ciò che più conta, lo ha fatto senza vergogna.

Il risultato di tale esibizione può risultare sorprendente perfino per il soggetto protagonista e dalle osservazioni di chi ascolta, di chi legge, può emergere un’immagine inattesa. Eppure, se i nostri osservatori l’hanno notata, in qualche modo deve far parte di noi.

È questo il messaggio del libro Tra le pieghe dell’orologio, edito da 66thand2nd e tradotto in lingua italiana da Gabriella Tonoli. Una sorta di confessione che ci introduce nell’intimità dei pensieri della scrittrice statunitense e che, grazie all’incoraggiamento derivante dalla sua schiettezza, ci induce ad esplorare più a fondo anche i nostri.

Julavits mette alla prova se stessa realizzando questo diario tutt’altro che segreto. Il proposito è quello di immortalare e dare forma alla molteplicità di scenari che vengono generati dalla sua mente nel confronto con vari eventi verificatisi in due anni di esistenza, trascorsa per la maggior parte tra New York e il Maine. Come dice lei stessa, il più delle volte per decifrare il tutto ed esprimerlo in maniera autentica è necessario “costruire una scala di parole fino al […] cervello”.

In queste sue confidenze l’autrice di The Vanishers esamina al microscopio ciò che si nasconde “tra le pieghe dell’orologio”, ossia descrive i risvolti degli attimi apparentemente più insignificanti delle sue giornate.

Mette a nudo il suo complicato rapporto con il tempo, una dimensione che ha perso la sua unità di misura e che, proprio per tale motivo, nel suo scorrere rapido provoca all’autrice preoccupazioni e stress. Lo sfuggire delle cose, delle persone, il loro inesorabile dirigersi verso l’estinzione, da un lato genera dolore, poiché rende “difficile identificare l’immagine del sé che si manifesta in ogni istante”, dall’altro rappresenta l’opportunità essenziale per la creazione di nuove realtà.

Le esperienze vengono selezionate con un’attenzione minuziosa. La lettura è agile e leggera. Lo stile ironico e informale. L’impressione è quella di trovarsi comodamente seduti al tavolo di una sala da tè, a tu per tu con una donna matura che è anche moglie e madre, spinta dal forte desiderio di raccontarsi e comprendersi, senza alcun imbarazzo.

I luoghi e soprattutto gli oggetti, il cui ruolo viene da molti ignorato, assumono per la protagonista un’importanza primaria. La stessa ne fa una parte ineliminabile di sé.

«Io sono una persona da oggetti. Mi aggrappo alle cose. […] Non per ragioni di status. Semplicemente come ancoraggio. Ho accordato la mia protezione agli oggetti che mi hanno dato stabilità».

Si tratta di oggetti ad un primo sguardo privi di valore, come il pomello di un rubinetto o una lampada da comodino. Queste cose contribuiscono a tracciare i contorni della sua personalità e a definire l’idea che ha costruito di se stessa, a volte sorprendente e non gradita, a volte traballante.

Gli spunti di riflessione sono ovunque, la realtà quotidiana ne è intrisa. Ad esempio, osservando l’arredamento delle case delle vacanze estive, la scrittrice trae delle conclusioni su “come una persona interpreta il tempo che deve essere sprecato”.

Un albero può invece diventare il simbolo di un’intera storia familiare; i suoi rami rappresentano delle braccia materne che proteggono le persone unite da quel legame ed i loro ricordi; le sue radici le fondamenta delle loro emozioni. La sua perdita, a causa di un uragano, provoca un dolore insopportabile, difficile da accettare ed elaborare.

Allo stesso modo, questo libro ci mostra come anche le persone che si incontrano lungo la propria strada possano rendere visibili ai nostri occhi molti dettagli preziosi. L’autrice fa infatti notare come il modo stesso di raccontare delle storie o le semplici piccole reazioni degli interlocutori alla nostra narrazione possano utilmente mettere in crisi alcune solide convinzioni:

«Il modo in cui avevo espresso certe verità, presupponeva un certo grado di falsità. Presupponeva una maschera».

Alla base di questa consapevolezza c’è la forte volontà di comprendere i propri cambiamenti. “Capita a me come capita a tutti. Di non essere se stessi per interi mesi”. La Julavits entra nel profondo della propria identità, della Heidi che si nasconde dietro a quella maschera, ripercorrendo tutti gli stadi della propria evoluzione. Ricorda ad esempio le diverse interpretazioni da lei stessa fornite al personaggio di Edie Sedgwick rileggendo a intervalli regolari della propria vita la sua biografia scritta da Jean Stein. Il suo giudizio è passato dall’emulazione, all’ammirazione, alla disapprovazione, fino all’indulgenza.

Le persone, i personaggi, le vecchie fotografie sono specchi tramite i quali diventa possibile esaminare il riflesso della propria persona e comprendere meglio chi eravamo, chi siamo e chi non vorremmo essere, interrogandoci su chi saremmo potuti diventare. Le coincidenze, in tale contesto, non appaiono più come eventi casuali, ma possiedono un non so che di soprannaturale, in grado di fornire degli indizi sulla futura traiettoria da seguire. Ogni incontro definisce una direzione per la nostra vita e, il più delle volte, ne esclude un’altra.

Tra le pieghe dell’orologio è un invito a rimuovere la polvere che ricopre la superficie delle nostre frenetiche giornate. A raccontare la propria verità, o almeno una versione di essa. Heidi Julavits ci stimola a non trascurare alcun risvolto di noi stessi, ma, al contrario, a raccogliere accuratamente tutti i frammenti sparsi come parti di un puzzle il cui risultato rimane imprevedibile. E forse proprio nel mistero del suo esito risiede la magia.

Autore: Heidi Julavits
Titolo: Tra le pieghe dell’orologio
Titolo originale: The Folded Clock: A Diary
Traduzione: Gabriella Tonoli
Editore: 66thand2nd
Anno: 2018