«Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi. Io scrivo solo note a piè di pagina»
Il poeta T. S. Eliot nel saggio La funzione della critica (1923) ribadiva il concetto che ogni nuovo libro che viene scritto modifica il rapporto esistente tra le opere, che formano complessivamente un ordine ideale, quindi è l’opera di oggi che viene ad alterare il passato, facendocelo vedere sotto altra luce.
Beh. La vicenda di Roberto Bazlen, detto Bobi, ci insegna che a volte non serve nemmeno far la fatica di scrivere un’opera per entrare e cambiare la storia della letteratura. Bobi Bazlen è autore di nessun libro, eppure ha una notevole influenza su tutta la letteratura a lui contemporanea e su quella successiva.
Bazlen nacque a Trieste, nel 1902, e frequentò Saba e Svevo; divenne amico di Montale, Debenedetti e Solmi. Fu lui a lanciare Svevo scrivendone entusiasta a Montale. Creava legami letterari. E fu anche il primo a importare in Italia il fior fiore della letteratura mitteleuropea e non solo, da Musil a Gombrowicz, di cui scrisse a Luciano Foà in una lettera del 16 dicembre 1958:
«Direi assolutamente di sì!!!
Mi sono divertito un mondo e mezzo; ed è uno degli alleati più onesti che si possano avere nella vera rivoluzione contro il amore, la arte, gli immortali principi e tutte le fregnacce che sai»
Forse non scrisse mai un’opera completa per via di un certo suo lato accidioso, oblomovista, che Calasso rubrica sotto l’insegna del Taoismo. Infatti una delle sue abitudini, che mantenne fino alla fine dei suoi giorni, consisteva nel passare uno svariato numero di ore a leggere, disteso comodamente su un letto con qualche cuscino. La sua attività preferita era la lettura, non la scrittura.
Così ha sempre evitato di scrivere l’opera che tutti si attendevano da lui, come scrive Roberto Calasso, che insieme a Luciano Foà e a Bobi Bazlen nel 1962 fondò l’Adelphi, nel volume che raccoglie i suoi Scritti (L’abbozzo di un romanzo, Il capitano di lungo corso; alcune frammentarie Note senza testo; le Lettere editoriali e le famose Lettere a Montale):
«Amici e nemici hanno lamentato la continua elusione dell’opera da parte di Bazlen. Ma quella specie di elusione è stata proprio una delle sue massime scoperte. Non vorrei si credesse che la pubblicazione di questo libro debba essere intesa come tarda riparazione del peccato. Qui non c’è opera, solo un gruppo di appunti messi insieme da altri a formare un libro. Bazlen è riuscito tanto bene a passare fra le maglie da render vano anche questo tentativo di legare degli scritti al suo nome»
Quelle di Bazlen sono note ai margini di un testo implicito, non pervenutoci, infatti una sezione del non-libro si chiama puntualmente Note senza testo e raccoglie appunti scelti dai quaderni manoscritti lasciati da Bazlen, senza una datazione sicura, oltre ad alcuni testi “d’occasione”.
È stato sicuramente scritto più su Bazlen di quanto lui non abbia lasciato scritto. Daniele del Giudice gli dedicherà il suo primo romanzo, Lo stadio di Wimbledon, nel quale cerca di avvicinarsi all’uomo districandosi dalla sua leggenda e incontrando le donne che compaiono nelle poesie di Montale, Gerti e Ljuba, e gli uomini che sembrano più del sogno che della memoria:
«Alcuni di noi furono dei suoi personaggi. Lui se ne liberò lasciando questa città; però li perse, e fu una delle sue innumerevoli perdite. Lei sa che ci si libera dei personaggi solo attraverso il racconto, e forse neanche. Con noi aveva fatto una cosa diversa, e invecchiando potemmo riconoscerci: non descritti in una pagina, come sarebbe stato normale, ma messi in movimento da lui».
Così Lo stadio di Wimbledon è completamente incentrato sulla ricerca delle flebili tracce che Bobi Bazlen ha lasciato in vita. Una ricerca per arrivare al centro di quest’uomo sfuggente, che preferì la vita alla letteratura. Non a caso uno dei suoi aforismi recita:
«Un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi»
E Bazlen è oggi più vivo che mai. Ancora Del Giudice in Conversazione sull’animale parlante, oggi raccolto nel libro In questa luce, sembra parlare di Bazlen in questo brano, con la differenza che quest’ultimo ha ucciso tutto quanto e non ci rimane neppure quel cadavere che è l’opera finita, ma solo le prove del suo omicidio:
«L’autore è soltanto il primo lettore di un testo narrativo; ciò che egli conosce più del suo lettore è tutto quanto nel libro non c’è più, l’autore è consapevole della miseria di quel che è rimasto, perché ha ben presenti tutte le possibilità che sono state falcidiate, ricorda l’assassinio continuo che ha dovuto compiere a ogni frase, a ogni personaggio, a ogni pagina: un mare di cadaveri che restano attorno a quel che sussiste»
E in questo caso di Bazlen sussiste ben poco, pochi frammenti dispersi che raccolti in questo volume di Scritti, pubblicato, ovviamente, da Adelphi, ce lo restituiscono non solo come uno che faceva letteratura, ma come un sodale di Nietzsche, di Nicolás Gómez Dávila, di Cioran e di tutti coloro che hanno preferito il frammento all’opera, essendo stata la loro esistenza, il loro esserci stati, la vera opera d’arte.
«Verso il culmine – il fatto che ogni forma, nella sua suprema possibilità di compimento, dura solo un secondo – l’ininterrottamente creativo – ma questo è impossibile, perché la forma sorge dal caos – e così la disgregazione, che fa parte del fatto che nasca una nuova forma – Solo chi accetta la disgregazione è creativo, c’è anche la creatività del negativo – è dell’uomo potere non far nulla, vivere, arte di non dilazionare la morte –»
Roberto Bazlen
Scritti
Adelphi
1984