Leggere 2084. La fine del mondo dopo quello che succede, ogni giorno, attorno a noi (dagli attentati a Parigi del 13 novembre 2015 a quelli a Bruxelles del 22 marzo scorso), getta un’ombra di sconforto sul presente e soprattutto sul futuro. Il libro dello scrittore algerino Boualem Sansal, liberamente ispirato al celebre 1984 di George Orwell, dipinge uno scenario distopico, ancora più tremendo di quello immaginato da Michel Houellebecq nel suo “Sottomissione” (la vittoria di un candidato musulmano moderato alle elezioni presidenziali francesi del 2022).
Il romanzo è ambientato nell’Abistan, e 2084 è una data del passato riportata ovunque. Nessuno sa a che cosa corrisponda davvero quella data: a una battaglia, a un evento religioso, a una rivelazione. Ma fa parte di quel ristrettissimo bagaglio di conoscenze concesso agli abitanti, la cui vita ruota attorno al culto di Yölah e del suo rappresentante in terra, il suo “delegato” Abi. Tutte le lingue del passato sono state sostituite dall’abilang, e il libro sacro è il Gkabul. Si deve pregare nove volte al giorno; le date, il calendario, l’intera storia passata dell’umanità non hanno ormai più alcuna importanza
«La nostra fede è l’anima del mondo e Abi il suo cuore pulsante», «La sottomissione è fede e la fede verità», «L’Apparato e il popolo sono TUTT’UNO, cosí come Yölah e Abi sono Tutt’uno», «A Yölah apparteniamo, ad Abi obbediamo», ecc. erano alcune di quelle novantanove massime chiave che imparavi a memoria fin dalla più tenera età e ripetevi per tutto il resto della vita», scrive Sansal.
È una teocrazia totalitaria e opprimente, che tiene sotto scacco l’intera popolazione, con un costante lavaggio del cervello. Yölah sa le cose, decide del loro significato e istruisce chi vuole. Agli uomini non resta che «morire per vivere felici», come recita il motto dell’esercito abistano.
Il germe del dubbio – il pretesto letterario per descrivere il regime – si insinua in Ati, un trentacinquenne che, dopo anni trascorsi in un sanatorio arroccato su una montagna, fa ritorno a casa. Già il fatto stesso, durante il lunghissimo viaggio di rientro, di rendersi conto che c’è una frontiera, un limite, mette in discussione le basi dell’Abistan. «Quale frontiera? Quale strada proibita? Il nostro mondo – si chiede Ati – non è forse la totalità del mondo? Non siamo forse a casa nostra ovunque, per grazie di Yölah e di Abi? Che bisogno c’è di confini? Chi ci capisce qualcosa?».
Episodio dopo episodio, incontro dopo incontro, in Ati si rafforza l’idea che esiste altro rispetto all’Abistan. Riesce a comprendere, ad esempio, che le guerre di cui si parla e gli avversari del regime sono probabilmente creati ad arte per rinsaldare il potere dell’Apparato (cioè la ristretta e irraggiungibile casta formata dagli Onorevoli e dagli Adepti della Giusta Fraternità, che governa sull’Abistan).
«Essere il proprio nemico è la garanzia per vincere sistematicamente».
Ati riesce ad entrare in contatto con il mondo che c’è fuori dall’Abistan, comincia a credere che esista altro. «Avete mai sentito parlare di un certo Democ?» gli viene chiesto. Anche la democrazia appare come «un fantasma… un’organizzazione segreta… nessuno lo sa… Capita che qualcuno ne parli, a quanto pare».
È un libro difficile da digerire. La scrittura è impegnativa, ha una cadenza ossessiva, ripetitiva, proprio da libro sacro. Le frasi sono una lunga serie di accumulazioni ipnotiche.
«Zir aveva scritto un rapporto psichedelico sulla guerra lampo e sognava di farne una su vasta scala, il suo chiodo fisso era il ghetto di Qodsabad, l’idea che esistessero i Rinn non lo lasciava vivere, aveva un piano per annientarlo in tre giorni, uno per sorprendere e terrorizzare la popolazione, uno per mettere tutto a ferro e fuoco, uno per somministrare il colpo di grazia ai feriti e fare fagotto, mentre Mos, in un’altra brillante dissertazione, difendeva l’idea che solo la guerra permanente e totale, senza tregua né freni era conforme allo spirito del Gkabul, poiché lo stato di pace era indegno di un popolo portatore di una fede cosí potente». Centoundici parole senza un punto o un punto e virgola, e non è l’unico caso.
La descrizione dell’Abistan, dei suoi riti e delle sue storture, ha qualcosa di naturalista nella forma. Alla fine dell’Ottocento, in Francia, lo scrittore, sull’onda della filosofia positivista, cercava di esprimere la realtà nel modo più oggettivo ed impersonale possibile, lasciando alle cose e ai fatti stessi narrati, la descrizione del compito di denunciare lo stato della situazione sociale, evidenziando il degrado e le ingiustizie della società.
In 2084. La fine del mondo, il tentativo non è dissimile, ma il peso del confronto (sia con il 1984 di Orwell che con una qualsiasi delle opere di Balzac, Flaubert o Zola) lo penalizza. Per i toni apocalittici, e in questo momento storico, questo romanzo è destinato a infiammare il dibattito politico, e Neri Pozza ha avuto sicuramente fiuto e coraggio nel pubblicarlo. Ma dal punto di vista letterario, Sansal non è Orwell né Houellebecq.
Autore: Boualem Sansal
Titolo: 2084 La fine del mondo
Editore: Neri Pozza
Anno: 2016